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Dodici lezioni sugli Ebrei in Europa. Dall’emancipazione alle soglie dello sterminio

di Fabio Levi, Silvio Zamorani editore, Torino, 2003, pp. 148

A cura di Cristina Cocilovo

Il libro raccoglie in dodici capitoli una serie di lezioni tenute da Fabio Levi all’Università di Torino.
Lo scopo del libro è esaminare il rapporto fra ebrei e non ebrei nell’Europa del XIX e XX secolo.
In particolare, viene messa a fuoco la relazione fra la modernità espressa dalla cultura europea e la trasformazione del mondo ebraico che, dopo l’eliminazione dei ghetti, aveva conquistato l’emancipazione nel corso dell’800.Levi affronta il tema da vari punti di vista: demografico, politico, sociale, culturale, religioso con le distinzioni che caratterizzarono le diverse aree europee.
Inoltre, rileva le differenze che esistevano nelle scelte di vita e nelle soluzioni possibili per la stabilità del popolo ebraico fra individui e comunità, e fra le numerose associazioni spesso in contrasto fra loro nel mondo ebraico. Infine, analizza il poderoso movimento migratorio dall’Europa soprattutto orientale verso l’America fra XIX e XX secolo.

Le lezioni si interrompono volutamente alla fine degli anni ’30, prima della Shoah, perché è l’insieme della storia del popolo ebraico che va considerata, non solo l’episodio atroce dello sterminio, che di solito emerge su tutto il resto e pare caratterizzare quel popolo unicamente come vittima.
La relazione tra mondo ebraico e popolazioni europee, nel corso dei due secoli considerati, viene presentata da Levi come molto complessa, poiché, se a partire dai principi dichiarati con la Rivoluzione francese si affermava l’uguaglianza fra tutte le confessioni religiose, l’interazione tra mondo ebraico e stati europei si mostrò densa di incomprensioni. Questo fu il frutto dei pregiudizi secolari maturati verso gli ebrei da parte degli europei di religione cristiana che li accusavano di deicidio e addirittura di omicidi rituali e mal tolleravano le loro consuetudini, soprattutto il prestito di denaro, causa di frequenti conflitti con i contadini. Le responsabilità furono reciproche per la difficoltà delle comunità ebraiche ad aprirsi alla vita dello stato in cui risiedevano per una forma di autodifesa e perché non erano considerati cittadini a tutti gli effetti. Infine, ogni stato europeo gestiva questa relazione in modo differente a seconda del livello di apertura politica che lo contraddistingueva.

Significativa influenza ebbe la crescita demografica degli ebrei in Europa nel corso dell’800, dopo che le comunità si erano aperte verso le società di maggioranza. Nel corso dei secoli precedenti, tra ‘500 e ‘700, nel periodo della segregazione nei ghetti, quando le comunità erano costrette all’isolamento e all’autosufficienza, si era mantenuta una certa stabilità nel numero delle nascite, grazie alle prescrizioni previste dalle norme religiose. In questo periodo gli ebrei della diaspora ammontavano a circa due milioni, distribuiti tra Vicino Oriente e varie parti dell’Europa, escluse le aree spagnole.
Verso la metà dell’800 superarono i dieci milioni.

Le condizioni di vita nei secoli della segregazione erano difficili al punto da costringere le comunità all’autogestione, affidandosi al Rabbino capo che governava, amministrava la giustizia ed anche la vita quotidiana sulla base dell’interpretazione delle norme religiose, mantenendo quindi uno stato di rigida conservazione. Tuttavia, pagando tasse sostanziose, gli ebrei potevano risiedere nei ghetti a patto che non divenissero proprietari di terre, di edifici e non prestassero servizio militare.

Di fatto, si poterono dedicare solo al piccolo commercio, spesso ambulante, e al prestito con interesse. Condizione diversa fu quella dei gevir, gli individui più abili nella gestione del denaro, che divennero consulenti e finanziatori dei monarchi, con il risultato di vivere in modo molto più libero e agiato, ma di sentirsi meno legati all’antica comunità che continuava a vivere nella povertà. In questi secoli, molti stati tra cui Inghilterra, Austria, Germania, Francia, Lituania avevano drasticamente allontanato gli ebrei da alcuni loro territori, se pure in modo transitorio.

Un caso a parte furono Spagna e Portogallo, che li bandirono definitivamente.

La rigidità si allentò con l’affermazione delle monarchie nazionali via via più laiche e meno soggette all’influenza della Chiesa cattolica, fortemente ostile agli ebrei.

Con l’emancipazione, tra la fine del XVIII e il XIX secolo, si assistette a un allentamento delle pratiche religiose delle comunità ebraiche ed anche gli ebrei, come la popolazione europea, subì un forte incremento demografico. L’inurbamento degli ebrei, il loro alto livello di istruzione (sin da bambini era obbligatorio imparare a leggere e a scrivere per poter conoscere la Torà), il loro orientamento verso le attività commerciali e le libere professioni, secondo alcuni, contribuirono allo sviluppo capitalistico. Di certo favorirono l’allontanamento progressivo dalle prescrizioni religiose e l’integrazione con il milieu sociale dei paesi in cui risiedevano.

Con le dovute differenze, però, poiché ben diversa fu la condizione degli ebrei in Europa occidentale e in Germania, dove si diffusero per esempio i matrimoni misti e l’impegno nelle libere professioni, rispetto ai paesi dell’Europa orientale e della Russia.

I paesi in cui si manifestarono le prime aperture furono due: l’impero austriaco di Giuseppe II, improntato al principio di tolleranza e con l’obiettivo di rendere gli ebrei utili allo stato offrendo l’accesso alle libere professioni e alle scuole cristiane, ma non la cittadinanza.

Il secondo fu l’Inghilterra, dove i divieti divennero via via desueti e gli ebrei godevano di una quasi completa libertà, sebbene non potessero adire al parlamento o alle università più prestigiose fin quasi a fine ‘800. Ma il punto di rottura si ebbe nella Francia di fine ‘700.

Con la prima costituzione del 1791 fu riconosciuta piena parità di diritti a tutti gli ebrei e in seguito Napoleone pretese un’esplicita dichiarazione di fedeltà alla nazione francese, nella quale si richiedeva l’abbandono della pratica dell’usura da parte degli ebrei: lo Stato doveva ottenere l’uniformità di tutti i cittadini rispetto alle leggi. Il concetto di nazione fu più problematico da accettare, in quanto l’uniformità delle leggi dello stato comportava la negazione di qualsiasi differenza di regole e comportamenti riconducibile ad un’altra matrice nazionale.

Mentre di fatto gli ebrei rappresentavano un gruppo nazionale autonomo. Con il 1848 si confermò la politica di parificazione, sebbene i drastici giudizi di Fourier e Proudhon contro i traffici e l’usura, incarnazione dello spirito commerciale, ritenuti vero male della società, pesarono non poco nella valutazione negativa contro gli ebrei, che per giunta rifiutavano di identificarsi con il destino della patria francese. Opinione che influì anche nell’affare Dreyfus di fine secolo.

In Italia la concessione dello Statuto nel regno sabaudo nel ’48, poi mantenuto dopo l’abdicazione di Carlo Alberto, divenne un riferimento per i cittadini degli altri stati italiani. L’equiparazione fra tutte le religioni favorì una estensione della parità agli ebrei, i quali si identificarono con lo spirito liberale delle norme dello statuto e parteciparono convintamente al processo risorgimentale. Dopo il 1870, il divieto imposto dal Papa ai cattolici di non partecipare alla vita politica dello stato facilitò il processo di integrazione, fino a renderlo uno dei più efficaci dell’Europa continentale.

In Germania, o meglio in Prussia, già esistevano leggi simili a quelle austriache di Giuseppe II, leggi che con il 1812 furono migliorate: i residenti nel paese godevano degli stessi diritti e doveri, quindi anche gli ebrei non avevano più obblighi di pagare tasse o di risiedere in aree specifiche, ma dovevano prestare servizio militare e utilizzare il tedesco, non l’ebraico. Il principio era quello di renderli utili al paese: i più ricchi e intraprendenti furono subito ben integrati, mentre si cercò di ridurre al minimo i vari venditori ambulanti, vagabondi, addetti alla macellazione rituale, rabbini. In alternativa dovevano essere sostenuti dagli ebrei più benestanti. La progressiva integrazione di notevole successo si scontrò nel secondo ‘800 con la diffusione dei concetti di razza e di sangue con cui gli intellettuali tedeschi cominciavano a misurare le differenze fra le diverse componenti della società e quindi anche gli ebrei. Nonostante verso la fine del XIX secolo, grazie allo sgretolamento delle comunità a guida rabbinica, gli ebrei cominciassero a partecipare alla vita politica come parlamentari e alla vita sociale ed economica come intellettuali ed esperti di finanza, mantenevano una religiosità familiare che continuava a distinguerli e ad additarli come diversi.

Spostandosi a est, in Polonia, gli ebrei ebbero maggiori difficoltà: erano molto più numerosi che in Germania e mal sopportati, se non odiati, dalla grande nobiltà terriera e dai contadini, per non parlare della potente Chiesa cattolica. Tuttavia, era riconosciuto loro un ruolo sociale, perché i numerosi e pesanti balzelli che dovevano pagare servivano a riempire le casse dello stato e delle casate aristocratiche. A Est, nella grande Russia, gli ebrei a inizio ‘800 erano ancora di più, circa 400.000. Vivevano per lo più negli shtetl e si autogovernavano, molto isolati dal resto della popolazione. Costituivano una massa di poveri dediti a piccoli commerci, a distillare alcolici o altro artigianato. Tuttavia, nel 1802 lo zar Alessandro I cercò di inserirli nella vita del paese, scoraggiando l’uso dell’ebraico, aprendo le scuole cristiane e assoggettandoli alla giustizia comune. Tuttavia, mancava quello spirito illuminista dei paesi dell’Europa occidentale, per cui non riuscì una vera integrazione e verso la fine dell’‘800 si assistette a un vero e proprio ribaltamento della situazione. Nel 1881, divenuto zar, Alessandro II pretese una forte russificazione dell’impero, non tentò più di assimilare gli ebrei ma piuttosto di isolarli, allontanandoli dagli shtetl e trasferendoli in modo forzato nelle periferie urbane. Seguirono numerosi e tragici pogrom da parte della popolazione più povera fomentata dalla politica imperiale.

L’insicurezza e la miseria raggiunsero livelli tali da costringere circa un quarto degli ebrei russi ad emigrare inizialmente verso la Gran Bretagna, ma essenzialmente verso gli Stati Uniti. Alcune organizzazioni ebraiche filantropiche tentarono di frenare l’esodo e di favorire un miglioramento delle loro condizioni, ma senza ottenere risultati significativi.

Dalla descrizione delle condizioni degli ebrei nei diversi paesi europei si evince quanto il quadro del mondo ebraico nel corso del XIX secolo, a seguito della diffusione dell’illuminismo, fosse vario e complesso. Si delinearono tre posizioni: gli ebrei più aggrappati alla tradizione, che temevano di diluire l’identità ebraica nell’integrazione con la società di maggioranza, moltissimi gruppi che premevano per le più varie soluzioni intermedie e infine coloro che vivevano nei paesi dove l’emancipazione era un dato di fatto, che insistevano per ridurre l’impatto della religione sui comportamenti nella vita pubblica. Di conseguenza si verificarono crisi di identità anche drammatiche: ne fu esempio il poeta ebreo-tedesco Heinrich Heine.

Problematica si rivelò l’affermazione in Europa dei principi dello stato nazionale.

L’identificazione sempre più diffusa fra stato e nazione finiva per rendere anomala la presenza ebraica in quanto minaccia per la compattezza di un paese. Di fatto per cultura, tradizione e religione gli ebrei costituivano una nazionalità autonoma, inserita all’interno di una comunità nazionale di maggioranza, di cui condividevano talvolta la lingua e sovente i principi politici liberali, ma apparivano come una minaccia qualora avessero voluto intraprendere iniziative politiche.

Si aggiunga che il cosmopolitismo ebraico veniva percepito con sospetto.

Viceversa, alcune figure carismatiche, come il banchiere Amschel Rotschild, fortemente arricchitosi con le guerre napoleoniche, con la sua ramificata famiglia, contribuì molto ad equilibrare e pacificare le relazioni internazionali del tempo.

Ma con alcune contraddizioni: se l’emancipazione contribuiva a radicare i gruppi ebraici nei singoli contesti nazionali, lo spiccato internazionalismo dei banchieri, legati alle monarchie conservatrici che finanziavano, tendeva a rendere contraddittorio il loro liberalismo e ancor più indelebile nell’immaginario popolare la figura dell’ebreo senza patria.

Una soluzione non poteva venire che dalla fondazione di uno stato ebraico, che si identificasse con la nazione ebraica. Tra le diverse proposte, la più rivoluzionaria fu esposta nel pamphlet Der Judenstaat di Theodor Herzl, pubblicato nel 1896, in pieno dibattito sull’antisemitismo esploso con l’affaire Dreyfus. Il libretto proponeva una scelta politica: un insediamento all’interno dell’impero ottomano, favorito dall’influenza che i ricchi finanziatori ebrei avevano verso l’imperatore, che si concretizzasse con un’emigrazione di massa verso la Palestina.

Non ebbe gran seguito, ma dopo la rivoluzione del 1905 in Russia, a cui avevano partecipato molti ebrei liberali, si verificarono pesanti pogrom contro gli ebrei avvertiti come pericolosi rivoluzionari. Ne seguì una forte emigrazione verso la Palestina.

A complicare la situazione e le possibili scelte si aggiunga che al sionismo “laico” secolarizzato di Herzl, si opponeva la visione tradizionalista del rabbinato che non concepiva come necessaria la formazione di uno stato ebraico. A loro parere gli ebrei potevano convivere come gruppo nazionale al pari di altre minoranze sia in Russia che in Germania e negli altri stati europei.

Quindi ostacolavano la tendenza ad emigrare.

La Prima guerra mondiale costituì uno spartiacque: infatti gli ebrei parteciparono in massa alla guerra nei singoli stati di appartenenza e nel 1917 la dichiarazione Balfour, dal nome del ministro degli esteri inglese, considerò con favore la creazione di una national home per gli ebrei in Palestina, dando speranza a chi puntava sull’autonomia politica.

Il dopoguerra si presentò tuttavia molto difficile: in Russia ai pogrom dei Bianchi si sommarono le rigide regole bolsceviche, contrarie alla proprietà e alle pratiche religiose, negli altri paesi non si accettò che gli ebrei venissero considerati minoranza nazionale, anzi la centralità assunta dagli stati nazionali comportava una riduzione degli spazi concessi alle componenti della popolazione che non facevano parte della nazione maggioritaria.

Complessivamente queste tendenze favorirono l’emigrazione in Palestina oltre che dalla Russia, da Paesi del centro ed est Europa, in particolare da Germania e Polonia.

La crescente adozione di misure restrittive nei confronti degli ebrei da parte di molti stati europei venne aggravata in Germania dall’elezione plebiscitaria di Hitler e dalle leggi che ne seguirono, come quelle di Norimberga del ‘35. L’antisemitismo assunse una caratterizzazione ideologica e pseudoscientifica basata su un concetto di nazionalità che esaltava sì la dimensione culturale e storica del paese, ma soprattutto quella etnica: il fondamento ultimo della nazione era la razza, cui si contrapponevano gli appartenenti all’antirazza, come gli ebrei.

Almeno 300.000 ebrei decisero allora di andarsene dalla Germania, ma quasi altrettanti preferirono restare per aspettare e vedere, nonostante la condizione di isolamento in cui si trovarono. Levi conclude la ricostruzione storico-cronologica con un capitolo intitolato Sull’orlo dell’abisso, titolo significativo con il quale interrompe volutamente la descrizione delle vicende di questo popolo al 1938, prima della Seconda guerra mondiale e della Shoah.

Invece di affrontare lo sterminio, ci informa che al 1938 in Palestina gli ebrei avevano raggiunto il milione e mezzo, sostenuti anche dalla World Zionist Organization che favoriva il Ritorno verso la Palestina, e predisponeva tutte le strutture che potevano giovare al nuovo insediamento: l’organizzazione delle fattorie, la scuola, la salute, la casa, la difesa, la raccolta delle imposte… Insomma si stava configurando l’organizzazione di un nuovo stato, in cui i cittadini si potevano dedicare al lavoro a partire da quello della terra, che nei secoli precedenti era stato loro negato.

Levi conclude il suo testo con un capitolo tematico sugli stereotipi e la storia del razzismo, sottolineando come al concetto di razza oggi si sia sostituito quello di cultura, inteso in senso non troppo diverso e quindi carico di ambiguità. Ritiene che siamo ben lontani dalla possibilità di tracciare un discorso generale sul razzismo. Ripercorre in poche pagine la storia del concetto, affermatosi progressivamente nel corso dell’800 in piena industrializzazione, quando l’erompere vorticoso dei cambiamenti pareva assegnare ad ognuno il suo posto nella storia, sulla base di una netta separazione fra le razze buone e le cattive, suddivisione sommaria influenzata da stereotipi secolari e ben radicati. È in questo periodo che la razza bianca ariana afferma la sua superiorità civilizzatrice su quelle cosiddette negroidi, le ebraiche e tutte le altre. In aggiunta, pubblicazioni sugli ebrei sia in Francia che in Germania riproponevano antichi stereotipi: dal deicidio, ai sacrifici rituali, dall’essere untori della peste nel Medioevo, al provocare disboscamenti facilitando le inondazioni, all’essere addirittura responsabili dello scoppio della Seconda guerra mondiale.

Tutto questo a dimostrazione che, quando l’antigiudaismo si incrociò con il razzismo moderno, esso aveva alle spalle una lunga tradizione che confluì nella duplice rappresentazione dell’ebreo sobillatore e rivoluzionario contrapposto al finanziere astuto e intrigante: immagini che destavano entrambe reazione sia a destra che a sinistra e che isolavano di fatto gli ebrei nella società.

Una ricca bibliografia con le opere citate nel testo conclude le Dodici lezioni sugli ebrei in Europa.

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13 maggio 2024