Ecologia nel mondo antico
Amore e rispetto per la Terra: alle origini di un’etica ambientalista nel mondo antico
Di Luciana Preti
Qual era il rapporto con l’ambiente nell’antichità, quando evidentemente non si poneva ancora il problema di valutare l’impatto dell’“impronta ecologica”?[1] Ebbene, una sorta di coscienza ambientalista esisteva anche nel pensiero degli antichi: nelle forme simboliche del mito e della religione, come in quelle dell’indagine scientifica, appare pregnante il rapporto con la Terra Madre. Verso di essa si manifestano la venerazione e, al tempo stesso, il senso di colpa per ogni forma di crudeltà che gli umani esercitano nei confronti della Natura: la terra stessa, ma anche le piante e gli animali.
Naturalmente l’argomento dell’impatto dell’uomo, e dei suoi vizi, sull’ambiente non poteva sfuggire alla riflessione morale di Seneca, che in una lettera a Lucilio (89, 20-22) depreca, come di consueto, il vizio dell’avidità.
Sen, Ad Luc. LXXXIX,
20.«Fin dove estenderete i vostri poderi? il territorio che era sufficiente a contenere un popolo, è troppo stretto per un solo padrone. Fin dove estenderete il limite dei vostri poderi arando, voi che non vi contentate di fissarlo neppure entro lo spazio di intere province? famosi corsi d’acqua bagnano terreni privati e grandi fiumi, confini di grandi popoli, vi appartengono dalla sorgente alla foce. Ma anche questo per voi è troppo poco! Occorre che i mari siano cinti dai vostri latifondi, che di là dall’Adriatico e dallo Ionio all’Egeo domini il vostro castaldo, che le isole, dimora di illustri condottieri, siano tenute in nessun conto. Siano estesi i vostri possedimenti quanto volete, sia un podere quello che una volta si chiamava impero, appropriatevi di tutto ciò che potete, finché gli altri posseggono più di voi.
21.Ora mi rivolgo a voi, il cui sfarzo si manifesta non meno grandemente della cupidigia di costoro. A voi dico: fino a quando non vi sarà lago su cui non sovrastino i frontoni delle vostre ville, fiume le cui rive non siano adorne delle vostre case? Ovunque scaturiranno vene di acqua calda, ivi sorgeranno nuovi asili per la dissolutezza. Ovunque la spiaggia s’incurverà in un’insenatura, voi subito getterete delle fondamenta e, solo contenti del terreno ottenuto colle vostre mani, spingerete il mare indietro. Risplendano pure dappertutto i vostri palazzi, in un luogo eretti sui monti con ampia vista verso la terra ed il mare, nell’alto innalzandosi dal piano fino all’altezza dei monti; benché abbiate costruito molti e grandiosi edifici, tuttavia ciascuno di voi è costituito da un solo corpo ed assai piccolo. A che servono molte stanze da letto? dormite in una sola. Non vi appartengono quelle in cui non abitate» (Ep. 89, 20-21) (a cura di di U. Boella UTET).
E aggiunge: 22. Passo quindi a voi, per la cui profonda e insaziabile gola si perlustrano da una parte i mari, dall’altra le terre, e si cacciano con grande fatica alcuni animali con gli ami, altri con lacci, altri ancora con reti di vario genere: nessun animale è lasciato in pace, a meno che non susciti disgusto. Quanto poco di queste vivande, procurate da tante mani, voi assaggiate svogliatamente? Quanto poco gusta di questo animale selvatico, catturato con grande pericolo, un signore crudele e schizzinoso? Quanto poco di tanti molluschi, portati da tanto lontano, scende attraverso codesto stomaco insaziabile? Disgraziati, non capite che avete una fame più grande del vostro ventre? (trad. mia)
20. ‘Quousque fines possessionum propagabitis? Ager uni domino qui populum cepit angustus est? Quousque arationes vestras porrigetis, ne provinciarum quidem spatio contenti circumscribere praediorum modum? Inlustrium fluminum per privatum decursus est et amnes magni magnarumque gentium termini usque ad ostium a fonte vestri sunt. Hoc quoque parum est nisi latifundiis vestris maria cinxistis, nisi trans Hadriam et Ionium Aegaeumque vester vilicus regnat, nisi insulae, ducum domicilia magnorum, inter vilissima rerum numerantur. Quam vultis late possidete, sit fundus quod aliquando imperium vocabatur, facite vestrum quidquid potestis, dum plus sit alieni.
21. ‘Nunc vobiscum loquor quorum aeque spatiose luxuria quam illorum avaritia diffunditur. Vobis dico: quousque nullus erit lacus cui non villarum vestrarum fastigia immineant? nullum flumen cuius non ripas aedificia vestra praetexant? Ubicumque scatebunt aquarum calentium venae, ibi nova deversoria luxuriae excitabuntur. Ubicumque in aliquem sinum litus curvabitur, vos protinus fundamenta iacietis, nec contenti solo nisi quod manu feceritis, mare agetis introrsus. Omnibus licet locis tecta vestra resplendeant, aliubi inposita montibus in vastum terrarum marisque prospectum, aliubi ex plano in altitudinem montium educta, cum multa aedificaveritis, cum ingentia, tamen et singula corpora estis et parvola. Quid prosunt multa cubicula? in uno iacetis. Non est vestrum ubicumque non estis.
22. Ad vos deinde transeo quorum profunda et insatiabilis gula hinc maria scrutatur, hinc terras, alia hamis, alia laqueis, alia retium variis generibus cum magno labore persequitur: nullis animalibus nisi ex fastidio pax est. Quantulum [est] ex istis epulis [quae] per tot comparatis manus fesso voluptatibus ore libatis? quantulum ex ista fera periculose capta dominus crudus ac nauseans gustat? quantulum ex tot conchyliis tam longe advectis per istum stomachum inexplebilem labitur? Infelices, ecquid intellegitis maiorem vos famem habere quam ventrem?
Seneca inveisce contro chi estende i confini di un latifondo alle dimensioni di una provincia, contro chi devia il corso dei fiumi, appropriandosene; contro chi altera il panorama costruendo ville fastose sulle sponde dei laghi, sui golfi, in prossimità di acque termali, sui monti e nelle pianure, dimore tanto immense quanto sproporzionate alle necessità di chi le abita. Già in questo testo di Seneca colpisce la condanna dello spirito predatorio degli umani, alimentato dalla golosità, che, in un crescendo di parallelismi, si conclude con un’affermazione lapidaria: si salvano solo gli animali che ci fanno schifo. Profunda et insatiabilis gula hinc maria scrutatur, hinc terras, alia hamis, alia laqueis, alia retium variis generibus cum magno labore persequitur: nullis animalibus nisi ex fastidio pax est. In qualche modo questo ricorda la frase con cui il britanno Calgaco condannerà l’imperialismo romano: raptores orbis, postquam cuncta vastantibus defuere terrae, mare scrutantur: si locuples hostis est, avari, si pauper, ambitiosi, quos non Oriens, non Occidens satiaverit: soli omnium opes atque inopiam pari adfectu concupiscunt (Tac. Agr. 30,1).
L’invettiva, solennemente oratoria, è scandita dall’anafora di quousque?. L’intento del discorso è indirizzato a un insegnamento morale, riguarda il comportamento individuale, che deve essere improntato alla moderazione; eppure, traspaiono alcune considerazioni sul rapporto tra gli esseri umani e l’ambiente che suggeriscono immediati confronti con la cosiddetta “società opulenta” e i guasti del mondo contemporaneo: la cementificazione delle coste, il latifondismo nei paesi del terzo mondo, la deviazione di fiumi per costruire bacini idroelettrici, con conseguenze devastanti, e così via. Analogie forse superficiali, certo, ma non prive di suggestione.
Al di là di questi confronti, vale la pena di chiedersi quale fosse la sensibilità “ecologica” del mondo antico. Possiamo parlare di rispetto della natura? Timore religioso, paura dei fenomeni devastanti e inspiegabili? Ce ne parla Lucrezio. Riconoscenza e culto per la madre terra? Non per nulla la dea dell’agricoltura si chiama Demetra (> De = Ge – Gea) “terra madre”. Che dire del rapporto con le altre forme di vita animale, nel senso etimologico di “animata”? Se ne trovano molte indicazioni da Pitagora a Plutarco, per non parlare dei miti di trasformazione.
La concezione antichissima secondo la quale tutto ciò che esiste è pervaso da un’unica forza vitale, che è la ragion d’essere di ogni cosa, spiega la presenza nella mitologia antica di esseri semidivini dalle forme miste, in parte umane, in parte animalesche, come centauri, minotauri, sileni, arpie, sirene, così come i racconti di trasformazioni di esseri umani in animali, in piante, in oggetti inanimati e viceversa. Il passaggio da una forma all’altra non è che uno dei mille fenomeni stupefacenti in cui si esprimono le infinite potenzialità della Natura.
Una simile concezione, che postula la sostanziale unità di tutti gli esseri viventi, è tuttora presente presso altre culture, come nell’India di religione induista, per esempio, o lo è stata, fino all’acculturazione imposta dai conquistatori europei, presso alcune popolazioni dell’America precolombiana. Nella storia del pensiero occidentale invece la percezione che l’uomo ha di se stesso come parte di un tutto in cui scorre la Vita, va gradualmente affievolendosi a favore di una visione antropocentrica, in cui l’uomo eccelle come l’unico essere razionale. Con lo studio scientifico della natura, a partire da Aristotele, tutti gli esseri vengono classificati in generi e specie, suddivisi in regni dai confini invalicabili (minerale, vegetale, animale). Il rapporto tra l’uomo e la natura si colloca in una prospettiva, in cui confluiscono l’analisi scientifica e l’apporto del pensiero religioso ebraico-cristiano.
Ben presto il mito viene sottoposto a una rigorosa critica razionalistica, benché continuino a sussistere istanze di carattere religioso che postulano l’esistenza di una dimensione soprannaturale, da cui possono avere origine fenomeni insoliti. Le metamorfosi favoleggiate appaiono dunque come prodotte da un potere eccezionale, la magia, o come simboli e allegorie per parlare della condizione umana, come in Apuleio.
D’altra parte la narrazione del Genesi stabilisce un ordine gerarchico nell’universo già all’atto della creazione e attribuisce all’uomo un ruolo privilegiato tra le creature (Genesi 2, 16-19). Inoltre, come risulta da diversi passi della Bibbia, il pensiero ebraico manifesta orrore per ciò che è misto, impuro. Tutto questo porta a una definizione degli ambiti di appartenenza di ciascun essere esistente, ogni violazione dei quali appare come una pericolosa trasgressione, una mostruosità. Monstrum, “prodigio”, definisce qualcosa che suscita stupore perché insolito, ma il termine assume un senso negativo quando si ritiene che ciò che presenta delle caratteristiche al di fuori della norma sia potenzialmente pericoloso, o segno di una maledizione divina o della punizione di una trasgressione.
Tutto questo richiederebbe una trattazione molto ampia, che in questo caso sarebbe spropositata.
Ci limitiamo a qualche breve percorso di letture.
La sacralità degli alberi.
1 – Apollonio Rodio, Argonautiche, II, 467-486
Gli esempi di Parebio ed Erisittone
Tagliare alberi è un’empietà. La punizione che ne consegue viene pagata duramente anche dai figli di chi l’ha commessa: così accade a Parebio, figlio dell’empio che ha tagliato la quercia di una ninfa Amadriade, come racconta Fineo, l’indovino, nelle Argonautiche di Apollonio Rodio (II, 467-486); così accadrà che anche ai famigliari di Erisittone, i quali, benché non siano oggetto diretto della punizione, subiranno le conseguenze del destino del colpevole.
Cominciamo dal racconto di Fineo.
Apollonio Rodio, Argonautiche II, 467-486
“Amici, non tutti gli uomini sono superbi,
non tutti scordano i benefici. Guardate
quest’uomo che un tempo è venuto a cercarmi
perché voleva conoscere il proprio destino.
Quanto più lavorava, quanto più s’affaticava,
sempre più lo tormentava la mancanza dei mezzi
di vita; cresceva giorno su giorno sempre più atroce
e per le sue pene mai non c’era respiro.
Ma pagava una dura pena per una colpa
del padre: costui, trovandosi solo nei boschi
a tagliare la legna, disprezzò le preghiere
di una Ninfa Amadriade, che gli chiese piangendo
di non tagliare il tronco di quercia ch’era cresciuto con lei,
dove aveva trascorso la vita; ma lui incurante recise
l’albero, nell’arroganza della sua giovinezza.
Ma poi la Ninfa mandò una sciagura incurabile
a lui ed ai suoi figli. lo, quando venne da me,
conobbi la colpa, e gli ordinai di costruire un altare
alla Ninfa di Tinia[2], e compiervi dei sacrifici
per espiazione, chiedendo di scampare alla sorte paterna.
E da quando è sfuggito al castigo divino, non si è
scordato di me, non mi ha trascurato, ché anzi a fatica lo mando
alla sua casa, tanto desidera porgermi aiuto nella disgrazia”[3]. (Trad. G.Paduano, BUR, 1986)
‘ὦ φίλοι, οὐκ ἄρα πάντες ὑπέρβιοι ἄνδρες ἔασιν,
οὐδ᾽ εὐεργεσίης ἀμνήμονες. ὡς καὶ ὅδ᾽ ἀνὴρ
τοῖος ἐὼν δεῦρ᾽ ἦλθεν, ἑὸν μόρον ὄφρα δαείη.
εὖτε γὰρ οὖν ὡς πλεῖστα κάμοι καὶ πλεῖστα μογήσαι,
δὴ τότε μιν περιπολλὸν ἐπασσυτέρη βιότοιο
χρησμοσύνη τρύχεσκεν: ἐπ᾽ ἤματι δ᾽ ἦμαρ ὀρώρει
κύντερον, οὐδέ τις ἦεν ἀνάπνευσις μογέοντι.
475 ἀλλ᾽ ὅγε πατρὸς ἑοῖο κακὴν τίνεσκεν ἀμοιβὴν
ἀμπλακίης. ὁ γὰρ οἶος ἐν οὔρεσι δένδρεα τέμνων
δή ποθ᾽ ἁμαδρυάδος νύμφης ἀθέριξε λιτάων,
ἥ μιν ὀδυρομένη ἀδινῷ μειλίσσετο μύθῳ,
μὴ ταμέειν πρέμνον δρυὸς ἥλικος, ᾗ ἔπι πουλὺν
αἰῶνα τρίβεσκε διηνεκές: αὐτὰρ ὁ τήνγε
ἀφραδέως ἔτμηξεν ἀγηνορίῃ νεότητος.
τῷ δ᾽ ἄρα νηκερδῆ νύμφη πόρεν οἶτον ὀπίσσω
αὐτῷ καὶ τεκέεσσιν. ἔγωγε μέν, εὖτ᾽ ἀφίκανεν,
ἀμπλακίην ἔγνων: βωμὸν δ᾽ ἐκέλευσα καμόντα
485 Θυνιάδος νύμφης, λωφήια ῥέξαι ἐπ᾽ αὐτῷ
ἱερά, πατρῴην αἰτεύμενον αἶσαν ἀλύξαι.
ἔνθ᾽ ἐπεὶ ἔκφυγε κῆρα θεήλατον, οὔποτ᾽ ἐμεῖο
ἐκλάθετ᾽, οὐδ᾽ ἀθέρισσε: μόλις δ᾽ ἀέκοντα θύραζε
πέμπω, ἐπεὶ μέμονέν γε παρέμμεναι ἀσχαλόωντι.’
L’abbattimento della quercia in questo caso colpisce una ninfa Amadriade
Le Amadriadi sono ninfe dei boschi, la cui vita è strettamente connessa con la vita delle querce, come dichiara il nome “parlante”: in greco áma “insieme”e drys “quercia”. Nel racconto prevale il tono patetico: la ninfa, dolendosi con veeementi, vibranti parole (ὀδυρομένη ἀδινῷ … μύθῳ), cerca di impietosire (μειλίσσετο, imperf. di conato) il malintenzionato. Nella sua preghiera non accenna alla sacralità dell’albero, ma sottolinea il legame affettivo: quello che è minacciato dalla scure è il tronco della quercia sua coetanea (πρέμνον δρυὸς ἥλικος) con cui finora aveva trascorso, anzi stava trascorrendo (τρίβεσκε, imperf. della forma intensiva di τρίβw) molto tempo, una vita, senza interruzione (διηνεκές). Dell’anonimo malfattore non si accusa l’empietà, come sarà nel caso che vedremo successivamente, ma la stoltezza, la noncuranza (ἀφραδέως) con cui compie il misfatto, spinto dalla tracotanza, dalla superbia dell’età (ἀγηνορίῃ νεότητος): un bullo senza cervello, si direbbe. La punizione sembra improntata alla regola del contrappasso: la ninfa, colpita nei suoi affetti più cari – la quercia è amata come una sorella gemella- punisce il figlio del colpevole.
Nel Sesto Inno di Callimaco, dedicato a Demetra, in tutto 138 versi, la parte centrale, di 83 versi, è occupata dal mito di Erisittone (vv. 32-115)
Erisittone abbatte il pioppo sacro a Demetra e la punizione della dea è terribile: sarà divorato da una fame inestinguibile, gettando nella disperazione tutta la famiglia.
Lo stesso mito è ripreso da Ovidio nel libro VIII delle Metamorfosi (vv. 738-878)
2 – Callimaco, Inni VI, A Demetra vv. 32-115
Ma quando la divinità benevola [Demetra n. del trad.] si adirò con i Triopidi, un perfido volere prese Erisíttone: si precipitò con venti servi, tutti nel fiore dell’età, tutti di statura gigantesca, in grado di distruggere una città intera, armato di asce e di scuri, e corsero impudenti al bosco di Demetra. C’era un pioppo, un albero grande, che toccava il cielo, sul quale le ninfe venivano a dilettarsi verso mezzogiorno; questo colpito per primo mandò agli altri un gemito. Demetra avvertì che il sacro legno soffriva, e disse adirata :”Chi mi taglia i begli alberi?”. Sùbito apparve con l’aspetto di Nicippe, che per lei i cittadini avevano nominato sacerdotessa pubblica. Afferrò con la mano le bende sacre e il papavero e aveva una chiave che pendeva dalla spalla. E diceva, calmando quel malvagio impudente : “Figliolo, chiunque tu sia che tagli gli alberi consacrati agli dei, fermati, figliolo, figlio molto caro ai genitori, cessa e richiama i servi, perché non si adiri la dea Demetra, della quale stai distruggendo una cosa sacra.” Ma guardandola bieco, più irosamente di come una leonessa che ha appena partorito guarda biecamente un cacciatore, sui monti Tmari, e dicono che il suo sguardo sia terribilmente spaventoso, rispose: “Togliti, che io non ti cacci nel corpo la mia grande scure. Questi alberi costruiranno una casa ben coperta, nella quale sempre darò in abbondanza piacevoli banchetti ai miei compagni .” Disse il ragazzo, e Némesi si scrisse le parole cattive. Ma Demetra si adirò in maniera indicibile e apparve la divinità. I suoi passi toccavano il terreno, la testa l’Olimpo. Ed essi, mezzo morti, non appena videro la dea, immediatamente scapparono via, lasciando la scure negli alberi. Ella lasciò gli altri, obbedivano infatti alla necessità, sotto gli ordini del padrone, e interpellò il malvagio signore: “Sì, sì, costruisci la tua casa, cane, cane, la casa in cui farai banchetti; d’ora in poi le feste saranno frequenti”. E dicendo tali parole, disponeva sofferenze per Erisittone. Immediatamente gli infuse una fame tormentosa e selvaggia, ardente e violenta ed egli si consumava per grave malattia. Infelice, per quanto mangiasse, subito di altrettanto cibo lo prendeva il desiderio. Venti preparavano le vivande, dodici versavano vino. Infatti ciò che cruccia Demetra, altrettanto cruccia Dioniso, e infatti con Demetra si adirò Dioniso.
I genitori, presi da vergogna, non lo mandavano né a cene comuni, né a conviti, ma trovavano ogni pretesto. Vennero a invitarlo alle gare di Atena Itonia gli Ormenidi: la madre dunque rifiutò: ”Non è in casa, proprio ieri è andato a Crannone, per riscuotere un credito di cento buoi.” Venne Polissò, madre di Attorione, dato che preparava le nozze per il ragazzo, per invitare entrambi, Triopa e il figlio. La donna a malincuore rispose piangendo: “Triopa viene senz’altro, ma un cinghiale ha aggredito Erisíttone, sul monte Pindo dalle belle valli, e lui è a letto da nove giorni.” Infelice madre amorevole, che cosa mai non inventasti? dava uno un banchetto festivo: “Erisittone è fuori città” Uno prendeva moglie: “Un disco ha colpito Erisíttone”, o “ Ė caduto da cavallo” oppure: “Sul monte Otri conta le greggi”. Intanto quello, nascosto all’interno della casa, banchettando tutto il giorno, mangiava in enorme quantità: il ventre gli sobbalzava malamente mentre mangiava sempre di più: come in un abisso del mare tutti i cibi scorrevano invano senza gusto. Come neve sul Mimante, come al sole un’immagine plasmata, e anche più di queste egli si struggeva fino ai nervi. All’infelice rimasero solo tendini e ossa.
Piangeva la madre, gemevano amaramente le sorelle e colei il cui seno egli aveva succhiato e spesso anche le dieci ancelle. Anche Triopa stesso si metteva le mani nei capelli bianchi, invocando così Poseidone che non lo ascoltava: “Padre falso, guarda qui tuo nipote, se davvero io sono figlio tuo e di Canace, figlia di Eolo, ed è mio questo figlio infelice: oh se le mie mani gli avessero dato un’onorata sepoltura, colpito da Apollo! Ora una una turpe fame insaziabile sta davanti ai miei occhi; o allontana da lui questo terribile male, o prenditelo e nutrilo tu. Le mie mense sono esaurite, abbandonati i recinti, vuote ormai le stalle dei quadrupedi, infatti i cuochi si sono già ritirati. Anche i muli hanno staccato dal grande carro, e ha mangiato la mucca, che la madre allevava per Estia, e la cavalla vincitrice nelle gare e il cavallo da guerra e la gatta, che le piccole bestiole temevano.” Fino a quando nella dimora di Triopa c’erano ricchezze, soltanto le stanze interne della casa erano a conoscenza della disgrazia, ma quando i denti prosciugarono fino in fondo la casa, anche il figlio del re sedette nei crocicchi a chiedere bocconi e sudici avanzi di cibo. (trad. mia)
Lo stesso mito è ripreso da Ovidio nel libro VIII delle Metamorfosi
Nell’VIII libro delle Metamorfosi (vv. 738-878) si assiste a un convivio presso la dimora del fiume Acheloo, il quale durante la cena che offre ai suoi ospiti, tra cui Teseo, narra vicende che si concludono con una trasformazione. Di fronte all’incredulità di qualcuno, un ospite, Lelege, narra il mito di Filemone e Bauci, trasformati in alberi, come premio per la loro pietas. Alla curiosità di Teseo, Acheloo riprende a sua volta a narrare, affermando sunt, quibus in plures ius est transire figuras…(“Ci sono alcuni che hanno la facoltà di mutarsi in forme diverse”) Questa facoltà fu anche della figlia di Erisittone. Viene così anticipata, con una breve allusione, la tragica conclusione della vicenda, per cui, come si vedrà, la povera figlia dell’empio spregiatore degli dei (qui numina divum/ sperneret et nullos aris adoleret odores.v. 739-40 ), troverà scampo solo mutando continuamente forma.
3. a) – Ovidio Metam. VIII, vv.738- 784
E anche la moglie di Autolico, figlia di Erisittone, ha lo stesso poter. Suo padre era uno che disprezzava la divinità degli dei e che non bruciava mai essenze profumate sugli altari. Si dice che abbia violato con la scure persino un bosco sacro a Cerere e che abbia profanato col ferro antichi alberi. Fra questi si ergeva un’enorme quercia dal fusto annoso, da sola era un bosco; la cingevano intorno bende e tavolette commemorative e ghirlande, testimonianze dei voti esauditi dalla potenza delle dea. Sotto di essa sovente le Driadi avevano intrecciato danze festose, sovente anche, tenendosi per mano, in fila, avevano girato intorno al suo tronco, che misurava quindici cubiti. E il resto del bosco sotto di essa era tanto alto quanto l’erba sotto tutto il bosco. Tuttavia non per questo il figlio di Triopa ne ha allontanato la scure: ordina ai servi di tagliare alla radice la sacra quercia, e come vide che esitavano ad obbedire all’ordine ricevuto, strappata la scure ad uno, pronunciò queste parole da scellerato: “Non fosse solo una pianta sacra alla dea, ma fosse pure la dea stessa, ora toccherà la terra con la cima frondosa”. Disse, e mentre librava l’arma per sferrare colpi di traverso, la quercia sacra a Cerere tremò ed emise un gemito, e cominciarono a impallidire le foglie e parimenti le ghiande, e a diventare pallidi i lunghi rami. Non appena l’empia mano produsse una ferita nel suo tronco, dalla corteccia spezzata fluì del sangue così come quando un grande toro sacrificale cade davanti agli altari, suole sgorgare il sangue vivo dal collo spezzato. Allibirono tutti, e uno fra tutti ebbe il coraggio di fermare l’empia azione e di trattenere la scure crudele. Il Tessalo lo guarda e dice: “Prendi il premio dovuto a un sentimento pio”, e volge il ferro dall’albero all’uomo, gli taglia la testa e colpisce di nuovo la quercia, ma dall’interno della quercia viene emesso questo suono: “Ninfa, carissima a Cerere, sono io sotto questo legno, io che morendo ti predico che incombe su di te la punizione per i tuoi misfatti, conforto questo per la mia morte”. Ma quello persevera nel suo delitto e infine l’albero, colpito innumerevoli volte, vacilla e trascinato da funi, precipita e con il suo peso abbatte gran parte del bosco. Sconvolte dalla perdita subita dai boschi e da loro stesse, le driadi, le sorelle tutte, vestite di nero, vanno da Cerere addolorate e chiedono la punizione di Erisittone. La bellissima dea fece loro un cenno di assenso e, con un movimento del capo, scosse i campi coperti di messi mature; meditò un genere di pena tale che avrebbe suscitato compassione, se quello per le sue azioni non potesse far pena ad alcuno.(trad. mia)
Segue la descrizione della Fame e della sua dimora: un’ecfrasis di straordinario effetto, in cui si sottolinea l’antitesi tra Cerere, la dea delle messi, e la Fame, a dimostrare l’eccezionalità dell’oltraggio e quindi della punizione. E la fame obbedisce (Dicta Fames Cereris, quamvis contraria semper/illius est operi, peragit).
Metam. VIII, vv.784 – 813. Ma lei, come Dea, non poteva accostarsi ad essa (il Fato non consente che Cerere e la Fame si incontrino) e perciò chiamò a sé una delle divinità dei monti, un’oreade agreste, e così le disse: “C’è una località nel lembo estremo della Scizia coparta di ghiacci, un terreno triste, sterile, senza messi e senz’alberi. Lì abitano il Freddo che paralizza, il Pallore, il Brivido, la Fame, scavata dal digiuno. Comanda a quest’ultima di insinuarsi e nascondersi nelle viscere scellerate di quel sacrilego, in modo che non ci sia abbondanza di cibo che la vinca, ma sia lei a sconfiggere le forze che provengono da me! Non aver paura della lunghezza del viaggio! Prendi il mio carro, prendi i miei draghi, che guiderai per i cieli”. E glieli consegnò. Quella prese il cocchio che la trasportò in aria e viaggiò finché giunse in Scizia: sulla cima di un monte gelato, che si chiama Caucaso, tolse il giogo ai draghi e si mise in cerca della Fame. La trovò in un campo pieno di pietre, che cercava di strappare con i denti e con le unghie i rari fili d’erba. Aveva i capelli irti, gli occhi infossati, il viso pallidissimo, le labbra bianche, che sembravano coperte di muffa, le fauci inaridite dal tartaro, la pelle dura e tesa attraverso la quale si potevano contare gli organi interni, le ossa spuntavano come nude sotto la curva delle anche, non aveva ventre e al suo posto c’era un vuoto; la cassa toracica sembrava in bilico, sostenuta a stento dalla spina dorsale. La magrezza aveva fatto sì che sembrassero più grosse le giunture: gonfie erano le rotule dei ginocchi e protuberanti in modo esagerati i talloni. Quando la messaggera di Cerere la vide da lontano (non osò infatti avvicinarsi), le riferì l’ordine della dea, trattenendosi pochissimo tempo; ma per quanto rimanesse distante e fosse appena arrivata, ebbe l’impressione di sentir fame. Perciò subito impresse una conversione al carro tirato dai draghi e si alzò in cielo in direzione dell’Emonia. (trad. G. Faranda Villa. Ovidio, Le Metamorfosi, BUR, 1994)
3. b) – Ovidio Metam. VIII, vv.814-878
La Fame, per quanto sia sempre in opposizione a Cerere, eseguì tuttavia l’incarico e si trasferì sulle ali del vento alla casa che le era stata indicata; entra subito nella camera da letto del sacrilego e, mentre era abbandonato nel sonno (era notte infatti), lo stringe tra le braccia, infonde sé stessa nell’uomo, gli soffia in gola, nel petto e sul volto e spinge il digiuno nella cavità delle vene. Assolto l’incarico, la fame abbandona il mondo fertile e volge indietro alla sua dimora disadorna, all’antro consueto. Un dolce sonno stava cullando Erisittone tra le sue placide ali: egli sogna un banchetto, muove invano la bocca, batte i denti sui denti, e inghiotte nell’inganno del sogno un cibo che non c’è e invece delle vivande mastica inutilmente l’aria impalpabile. Ma non appena il sonno cessa, la smania di mangiare infuria e impera nelle fauci avide e nelle viscere smisurate. Senza indugio chiede tutto ciò che produce il mare, che producono la terra e l’aria, e di fronte alla mensa imbandita si lamenta del digiuno e tra le vivande chiede altre vivande, ciò che sarebbe potuto bastare a città intere, a una popolazione, non basta per uno. Quanto più manda giù nel ventre, tanto più desidera. Come il mare accoglie le acque che scorrono da tutta la terra e non sazio d’acqua inghiotte i fiumi che vengono da lontano; e come il fuoco divoratore non rifiuta mai ciò che lo alimenta e brucia un’infinita quantità di legname, e quanto più gliene si dà, più ancora ne richiede, e dalla quantità stessa è reso ancor più vorace. Così la bocca dell’empio Erisittone mangia le vivande e al tempo stesso ne richiede. Tutto il cibo in lui richiede cibo e, mentre mangia, lo spazio dello stomaco si fa sempre vuoto. Ormai con la sua fame e con la profonda voragine del ventre Erisittone aveva fatto scemare le sostanze paterne, ma ancora imperversava la fame terribile, implacata, e divampava l’ardore della gola insaziata.
Infine, ingoiato il patrimonio, rimaneva la figlia, che non si meritava un padre tale. Privo di mezzi egli vende la figlia. Ma lei, di nobile stirpe, si rifiuta di avere un padrone, tendendo le palme sulla superficie del mare lì vicino, dice: “Strappami al padrone, tu, che hai il privilegio di avermi tolto la verginità”. Questo privilegio era di Nettuno. Questi, accolta la preghiera, benché essa fosse stata vista poco prima dal padrone che la inseguiva, ne cambia l’aspetto e le dà fattezze maschili e un abbigliamento da pescatore. Il padrone, guardandola: “ O tu, che nascondi l’amo in un pezzetto di cibo, tu che manovri la canna, – dice – che il mare ti sia favorevole e che per te il pesce nell’acqua abbocchi e non si accorga di nessun amo, se non quando ci sia già attaccato: dimmi dov’è quella che poco fa con una povera veste e i capelli scarmigliati si era fermata su questa spiaggia (l’ho vista io ferma sulla spiaggia) e più lontano non si trovano le sue orme.” Lei capì che il dono del nume aveva effetto e rallegrandosi del fatto che si chiedeva di lei proprio a lei, rispose a chi la interrogava con queste parole: “Chiunque tu sia, perdonami, io non ho distolto lo sguardo da questo tratto di mare, ma sono stato concentrato sul mio lavoro. E perché tu non abbia dubbi, così la divinità possa favorire questa mia attività, quant’è vero che finora nessuno, tranne me, si è fermato su questo lido, tanto meno una donna.” Quello ci credette e, giratosi, camminò sulla spiaggia e se ne andò ingannato: a lei fu reso il suo aspetto. Ma il padre, quando si accorse che sua figlia aveva un corpo che poteva mutare forma, più volte la vendette, lei, nipote di Triopa, a dei padroni. Ma lei, ora sotto forma di cavalla, ora di uccello, ora di bue, ora di cervo, sfuggiva e così forniva all’avido genitore viveri ottenuti illecitamente. Tuttavia dopo che la violenza del male aveva consumato ogni risorsa e aveva dato nuovo alimento al terribile morbo, Erisittone cominciò a lacerare a morsi le proprie membra e lo sventurato nutriva il suo corpo distruggendolo. (trad. mia)
Sul mito di Erisittone e sulle due versioni, di Callimaco e di Ovidio, sono stati versati fiumi di inchiostro, soprattutto sul confronto tra i due poeti, per individuare quanto di Callimaco ci sia nello stile di Ovidio. Ci limitiamo qui ad alcune osservazioni.
- su 884 vv. del libro VIII, il mito di Erisittone. occupa 140, circa un sesto
- è contrapposto a Filemone e Bauci, tasformati in alberi per la loro pietas
- risulta diviso in queste sequenze:
– a) il compimento del misfatto: il dolore dell’albero e delle driadi
– b) l’intervento di Cerere: la punizione. La Fame (ekfrasis)
– c) gli effetti della punizione (che cominciano nel sonno)
– d) la prostituzione della figlia e le sue trasformazioni
– c) l’autofagia.
- topoi comuni cfr. Callimaco e Apollonio Rodio, analogie e differenze:
- le dimensioni dell’albero Callimaco: τις αἴγειρος, μέγα δένδρεον αἰθέρι κῦρον, in Ovidio l’iperbole ampliata mensuraque roboris ulnas/ quinque ter implebat. Nec non et cetera tantum/ silva sub hac, silva quantum fuit herba sub omni.
- l’Amadriade in Apollonio Rodio le driadi in Callimaco, τῷ δ᾽ ἔπι ταὶ νύμφαι ποτὶ τὤνδιον ἑψιόωντο, le driadi e le loro danze in Ovidio: Saepe sub hac dryades festas duxere choreas,/saepe etiam manibus nexis ex ordine trunci/circuiere modum…
- la santità dell’albero i Callimaco: μή τι χαλεφθῇ πότνια Δαμάτηρ, τᾶς ἱερὸν ἐκκεραΐζεις; in Ovidio ingens annoso robore quercus,/una nemus; vittae mediam memoresque tabellae/sertaque cingebant, voti argumenta potentis
- il dolore della ninfa in Apollonio Rodio ἥ μιν ὀδυρομένη ἀδινῷ μειλίσσετο μύθῳ,/μὴ ταμέειν πρέμνον δρυὸς ἥλικος, ᾗ ἔπι πουλὺν/αἰῶνα τρίβεσκε διηνεκές; il dolore dell’albero Callimaco ᾄσθετο Δαμάτηρ, ὅτι οἱ ξύλον ἱερὸν ἄλγει,; l’amplificatio di Ov. contremuit gemitumque dedit Deoia quercus:/et pariter frondes, pariter pallescere glandes/coepere ac longi pallorem ducere rami/Cuius ut in trunco fecit manus impia vulnus,/haud aliter fluxit discusso cortice sangui
- l’empietà di Erisittone vs la stoltezza del padre di Parebio in Apollonio Rodio ἀφραδέως ἔτμηξεν ἀγηνορίῃ νεότητος.
- la pietas dei servi
- l’intervento inizialmente mite di Demetra in Callimaco (l’anafora teknon all’inizio del verso e all’interno del secondo verso, all’inizio del secondo emistichio) vs. la maestà e la collera immediata di Cerere in Ovidio.
- gli effetti della fame (il comico in Callimaco: le scuse della madre e il culmine nella preghiera del padre ἤ οἱ ἀπόστασον χαλεπὰν νόσον ἠέ νιν αὐτὸς /βόσκε λαβών: guariscilo o dagli da mangiare tu) il tragico in Ovidio: furit ardor edendi.
- In Callimaco Erisittone fa una misera fine, chiede l’elemosina, in Ovidio divora se stesso.
In conclusione, per gli antichi mancare di rispetto alla Natura, alla Madre Terra è un’empietà e come tale viene punita. Il finale terribile di Ovidio, la scena dell’autofagia, può essere letto come una metafora: danneggiare la terra equivale a distruggere se stessi.
La sacralità degli alberi è testimoniata anche da Plinio il Vecchio, che è un osservatore rigorosamente razionale: nella sua riflessione sul cosmo e sulla natura, sovente affronta anche problematiche morali e religiose e, nella meticolosa catalogazione di tutto ciò che appartiene al mondo naturale, affiora talvolta un senso religioso della Natura, una riflessione sull’infinita varietà degli aspetti che essa assume e dei fenomeni che produce, e la consapevolezza della sostanziale unità di tutto ciò che esiste e che è pervaso dallo stesso soffio vitale (vitalis spiritus).
Egli spiega così per quali ragioni gli alberi siano stati oggetto di rispettosa devozione fin dai tempi più antichi.
4 – Plinio, Naturalis Historia XII,1-3
La Terra e i suoi doni
A lungo furono nascosti i suoi [della Natura] doni [i minerali – n. del t.] e si riteneva che il beneficio più grande per l’uomo fossero gli alberi e le selve. Da qui in primo luogo si aveva il cibo, la caverna era resa più abitabile dalle foglie degli alberi, dalla corteccia si ricavavano vesti. Anche ora delle popolazioni vivono così. Perciò accade di provare sempre più meraviglia che dopo questi inizi si taglino i monti per ricavarne marmi, si ricerchino vesti di seta, si cerchi la perla negli abissi del Mar Rosso, lo smeraldo nelle profondità della terra. Per questo sono stati inventati i fori nelle orecchie, perché ovviamente era troppo poco portarli al collo, sulle mani, nei capelli, se non fossero inseriti anche nel corpo. Perciò è giusto seguire l’ordine dato dalla vita e parlare degli alberi prima di altri argomenti e introdurre quelli che furono gli inizi dei nostri costumi. Questi furono i templi dei numi e con un rito antico ancor oggi la gente semplice di campagna dedica a un dio l’albero più bello. E noi non adoriamo statue d’oro e d’avorio più dei boschi sacri e persino del silenzio che regna in essi. Il tipo di albero consacrato a una divinità particolare si tramanda in eterno: la quercia a Giove, l’alloro ad Apollo, l’olivo a Minerva, il mirto a Venere. Che anzi crediamo che Silvani, Fauni, e diverse dee e i loro poteri divini siano stati dati dal cielo a tutela delle selve. (trad.mia)
Tra tutti benefici che la Terra ha dato agli uomini summumque munusque homini datum arbores silvaeque intellegebantur e la spegazione è razionale: Hinc primum alimenta, harum fronde mollior specus, libro vestis. Hinc include piante e boschi, ma poi precisa: harum fronde e libro appartengono specificamente agli alberi. Proprio per la loro importanza per la vita umana (Haec fuere numinum templa, priscoque ritu simplicia rura etiam nunc deo praecellentem arborem dicant. Nec magis auro fulgentia atque ebore simulacra quam lucos et in iis silentia ipsa adoramus) gli alberi e boschi ispirano un sentimento religioso. Plinio in questo caso non irride le credenze superstiziose, perché la sacralità degli alberi è collegata alla sacralità della terra. Il fatto che essa venga violata per futili motivi (per esempio per cercare materiali preziosi con cui appagare la vanità) suscita in lui un indignato stupore: Quo magis ac magis admirari subit his a principiis caedi montes in marmora, vestes ad Seras peti, unionem in Rubri maris profunda, zmaragdum in ima tellure quaeri.
Disastri ecologici:
Testo1. Plinio Nat.Hist. II, 67
La Terra madre
Segue [nella trattazione N.d.T.] la terra, l’unica parte della natura a cui, per i suoi merito straordinari abbiamo aggiuntto il nome di “madre” che comporta la venerazione che si deve alla madre. Così essa appartiene agli uomini come il cielo a dio, essa, che ci accoglie quando nasciamo, dopo che siamo nati, ci nutre, e una volta nati sempre ci sostiena, infine ci abbraccia nel suo grembo, quando siamo ormai abbandonati dal resto della natura, coprendoci allora soprattutto come una madre, da nessun beneficio resa più sacra che da quello con cui rende anche noi sacri, conservando la memoria di noi e i nostri titoli e prolungando il nostro nome ed estendendo il ricordo di noi a dispetto della brevità del tempo. E la sua divinità, l’ultima, noi non preghiamo mai in preda all’ira contro qualcuno, come se non sapessimo che essa è la sola che non di adira mai con l’essere umano: le acque salgono in piogge, congelano in grandine, si gonfiano in ondate, precipitano rovinosamente in torrenti; l’aria di condensa in nubi, infuria in tempeste: ma questa benevola, mite, amorevole, sempre al servizio del bisogno dei mortali, quali frutti produce costretta [dalla coltivazione N.d.T.], quali ne offre spontaneamente in abbondanza, quali profumi, quali sapori, quali succhi, quali sensazioni per il tatto, quali colori, con quanta lealtà ci restituisce con gli interessi ciò che le abbiamo affidato! quali cose alimenta per noi! Infatti se ci sono animali nocivi, è per colpa dello spirito vitale: la terra è obbligata ad accogliere il seme di ogni cosa e a mantenere in vita gli esseri generati, ma in quelli dannosi la colpa è di chi li genera. Essa non accoglie più il serpente, dopo che ha attaccato l’uomo, e fa scontare la pena anche per conto di quelli che non ne sono capaci. Essa produce in quantità e genera sempre erbe medicinali per l’uomo. Che anzi si può credere che abbia escogitato anche i veleni per pietà verso di noi, perché, quando fossimo stanchi della vita, non ci consumasse in una lenta consunzione la fame, una morte assolutamente estranea ai meriti della terra, perché i precipizi non disperdessero il nostro corpo lacerato, perché non ci torturasse la pena intempestiva del capestro che blocca il respiro, a colui che cercasse la propria fine, perché, se la morte fosse cercata negli abissi del mare, la sepoltura non avvenisse nella pastura dei pesci, perché il tormento di un’arma non lacerasse il corpo. È così: per compassione ha generato qualcosa che si ingerisce facilmente e grazie a cui potessimo estinguerci con il corpo intatto e con tutto il nostro sangue, senza nessuna fatica, simili ad assetati, in modo che né gli uccelli, né le fiere ci toccassero una volta defunti, e chi era morto di propria volontà fosse riservato alla terra. Ma ammettiamolo: la terra ha prodotto per noi un rimedio dei mali, noi lo rendiamo veleno per la vita. Infatti non usiamo in modo simile anche il ferro, del quale non possiamo fare a meno? né tuttavia ci lamenteremmo a buon diritto, anche se lo avesse prodotto allo scopo di far del male. Solo verso questa parte della natura siamo ingrati. Per quali lussi e per quali oltraggi la terra non è assoggettata all’uomo? Viene gettata nei mari o viene scavata, per far entrare nell’interno le acque del mare. Con le acque, col ferro, col fuoco, col legno, con la pietra, con il grano a tutte le ore viene tormentata, e perché sia utile ai nostri piaceri molto più che alla nostra alimentazione, E tuttavia ciò che subisce sulla superficie esterna possono sembrare tollerabili: ma penetriamo nella sue viscere, scavando vene d’oro e d’argento e miniere di rame e di piombo, cerchiamo anche gemme e certi piccoli sassolini, facendo buche in profondità. Estraiamo le sue viscere, dove si cerca una gemma per portarla al dito. Quante mani sono logorate, perché un solo dito luccichi! Se esistessero gli Inferi, certamente i cunicoli dell’avidità e del lusso li avrebbero già scavati. E ci meravigliamo, se essa ha generato alcune cose dannose! Gli animali selvatici infatti la difendono, credo, e tengono lontane le mani sacrileghe. Noi non scaviamo tra i serpenti e non trattiamo le vene d’oro con le radici del veleno? Essendo tuttavia la dea più mite per il fatto che, benché tutti questi risultati della ricchezza si indirizzino a delitti, a stragi e guerre, e noi la bagniamo col nostro sangue e la ricopriamo di ossa insepolte, su queste tuttavia, come se condannasse la nostra follia, essa alla fine si distende e anche nasconde i delitti dei mortali. (trad. mia)
Sequitur terra, cui uni rerum naturae partium eximia propter merita cognomen indidimus maternae venerationis. sic hominum illa, ut caelum dei, quae nos nascentes excipit, natos alit semelque editos et sustinet semper, novissime conplexa gremio iam a reliqua natura abdicatos, tum maxime ut mater operiens, nullo magis sacra merito quam quo nos quoque sacros facit, etiam monimenta ac titulos gerens nomenque prorogans nostrum et memoriam extendens contra brevitatem aevi, cuius numen ultimum iam nullis precamur irati grave, tamquam nesciamus hanc esse solam quae numquam irascatur homini. aquae subeunt in imbres, rigescunt in grandines, tumescunt in fluctus, praecipitantur in torrentes, aer densatur nubibus, furit procellis: at haec benigna, mitis, indulgens ususque mortalium semper ancilla, quae coacta generat, quae sponte fundit, quos odores saporesque, quos sucos, quos tactus, quos colores! quam bona fide creditum faenus reddit! quae nostra causa alit! pestifera enim animantia, vitali spiritu habente culpam: illi necesse est semina excipere et genita sustinere; sed in malis generantium noxa est. illa serpentem homine percusso amplius non recipit poenasque etiam inertium nomine exigit. illa medicas fundit herbas et semper homini parturit. quin et venena nostri miseritam instituisse credi potest, ne in taedio vitae fames, mors terrae meritis alienissima, lenta nos consumeret tabe, ne lacerum corpus abrupta dispergerent, ne laquei torqueret poena praepostera incluso spiritu, cui quaereretur exitus, ne in profundo quaesita morte sepultura pabulo fieret, ne ferri cruciatus scinderet corpus. ita est, miserita genuit id, cuius facillimo haustu inlibato corpore et cum toto sanguine exstingueremur, nullo labore, sitientibus similes, qualiter defunctos non volucres, non ferae attingerent terraeque servaretur qui sibi ipsi periisset. verum fateamur: terra nobis malorum remedium genuit, nos illud vitae facimus venenum. non enim et ferro, quo carere non possumus, simili modo utimur nec tamen quereremur merito, etiamsi maleficii causa tulisset. adversus unam quippe naturae partem ingrati sumus. quas non ad delicias quasque non ad contumelias servit homini in maria iacitur aut, ut freta admittamus, eroditur. aquis, ferro, igni, ligno, lapide, fruge omnibus cruciatur horis multoque plus, ut deliciis quam ut alimentis famuletur nostris. et tamen quae summa patitur atque extrerna cute tolerabilia videantur: penetramus in viscera, auri argentique venas et aeris ac plumbi metalla fodientes, gemmas etiam et quosdam parvulos quaerimus lapides scrobibus in profundum actis. viscera eius extrahimus, ut digito gestetur gemma, quo petitur. quot manus atteruntur, ut unus niteat articulus! si ulli essent inferi, iam profecto illos avaritiae atque luxuriae cuniculi refodissent. et miramur, si eadem ad noxam genuit aliqua! ferae enim, credo, custodiunt illam arcentque sacrilegas manus. non inter serpentes fodimus et venas auri tractamus cum veneni radicibus? placatiore tamen dea ob haec, quod omnes hi opulentiae exitus ad scelera caedesque et bella tendunt, quodque sanguine nostro rigamus insepultisque ossibus tegimus, quibus tamen velut exprobrato furore tandem ipsa se obducit et scelera quoque mortalium occultat.
Già nel II libro, quando comincia la descrizione del mondo, Plinio celebra le lodi della terra, a cui spetta la venerazione che si deve a una madre: terra, cui uni rerum naturae partium eximia propter merita cognomen indidimus maternae venerationis. Ne elenca i meriti: le cure che riserva all’essere umano dalla nascita alla morte, in un periodo sapientemente elaborato: i parallelismi nos nascentes excipit, natos alit semelque editos et sustinet semper, sono interrotti dal chiasmo dei participi congiunti –novissime conplexa gremio iam a reliqua natura abdicatos, tum maxime ut mater operiens, per concludere con l’eloquente polittoto: nullo magis sacra merito quam quo nos quoque sacros facit….. illa medicas fundit herbas et semper homini parturit. Ed essa è sempre innocente: se alimenta animali nocivi, lo fa perché è suo dovere mantenere tutto ciò che nasce alla “vita”: vitali spiritu habente culpam. Malgrado tutti suoi benefici l’ingratitudine degli uomini la devasta: notiamo il climax: in maria iacitur … eroditur….. omnibus cruciatur horis … penetramus in viscera…. viscera eius extrahimus.
Ma ciò che maggiormente scandalizza sono i motivi futili che provocano le devastazioni (multoque plus, ut deliciis quam ut alimentis famuletur nostris): non la necessità, ma il desiderio del superfluo o l’amore per il lusso. E al rigore morale di Plinio non può sfuggire quanto la violazione della madre terra coinvolga gli uomini più sfortunati: quot manus atteruntur, ut unus niteat articulus! si ulli essent inferi, iam profecto illos avaritiae atque luxuriae[4] cuniculi refodissent.
Testo 2. Plinio, Nat. Hist. XXXIII, 1
La Terra e la sua devastazione: le miniere
Ora si parlerà delle miniere e proprio delle ricchezze e del valore delle cose, dato che le cerchiamo attentamente in vari modi all’interno della terra, in un luogo certamente si scava alla ricerca di oro, argento, elettro, rame, per le ricchezze che la vita richiede, altrove per il desiderio di lusso si scava alla ricerca di gemme e coloranti per dipingere legni e pareti, altrove ancora si cerca il ferro per la nostra sconsideratezza, il ferro tra guerre e stragi più gradito persino dell’oro. Esploriamo tutte le fibre della terra e viviamo sopra un punto dove è stata scavata, per poi meravigliarci che talvolta essa si apra o tremi, come se questo non potesse essere causato dall’indignazione della sacra madre. [2] Penetriamo nelle viscere della terra e cerchiamo le ricchezze nella sede dei Mani, come se fosse poco benigna e fertile quella dove camminiamo. E in tutto ciò è pochissimo quel che ricerchiamo per trovare dei medicamenti, infatti per quanto pochi il motivo di quelli che scavano è la medicina, benché la terra elargisca anche questo sulla sua superficie, come i cereali, generosa e accessibile in tutto quello che giova. Ci portano alla rovina, ci conducono agli Inferi proprio quelle cose che la terra ha nascosto e sepolto in profondità, quelle cose che non si formano rapidamente, cosicché la nostra mente, che vola a vuoto, consideri quale limite ci sarà dunque all’esaurimento di essa in tutti i secoli, e fino a dove l’avidità potrà penetrare. Come sarebbe innocente, felice la vita, anzi anche piacevole, se non si desiderasse niente da nessun altro luogo che dalla superficie della terra, e per dirla in breve, niente se non ciò che si ha con sé. (trad mia)
Metalla nunc ipsaeque opes et rerum pretia dicentur, tellurem intus exquirente cura multiplici modo, quippe alibi divitiis foditur quaerente vita aurum, argentum, electrum, aes, alibi deliciis gemmas et parietum lignorumque pigmenta, alibi temeritati ferrum, auro etiam gratius inter bella caedesque. Persequimur omnes eius fibras vivimusque super excavatam, mirantes dehiscere aliquando aut intremescere illam, ceu vero non hoc indignatione sacrae parentis exprimi possit. Imus in viscera et in sede manium opes quaerimus, tamquam parum benigna fertilique qua calcatur. Et inter haec minimum remediorum gratia scrutamur, quoto enim cuique fodiendi causa medicina est quamquam et hoc summa sui parte tribuit ut fruges, larga facilisque in omnibus, quaecumque prosunt. Illa nos peremunt, illa nos ad inferos agunt, quae occultavit atque demersit, illa, quae non nascuntur repente, ut mens ad inane evolans reputet, quae deinde futura sit finis omnibus saeculis exhauriendi eam, quo usque penetratura avaritia. Quam innocens, quam beata, immo vero etiam delicata esset vita, si nihil aliunde quam supra terras concupisceret, breviterque, nisi quod secum est!
Le miniere non solo deturpano la terra, ma possono provocare disastri, crolli o terremoti. Si cercano ricchezze e metalli utili per ignobili motivi, per la guerra e le uccisioni (alibi temeritati ferrum, auro etiam gratius inter bella caedesque), senza considerare quali siano i rischi, e poi ci si meraviglia delle conseguenze, marcate dall’omoteleuto: mirantes dehiscere aliquando aut intremescere illam, ceu vero non hoc indignatione sacrae parentis exprimi possit; per non dire degli effetti nocivi sottolineati dall’anafora illa, illa, illa. Come si vede anche qui la terra è rappresentata come un corpo vivo (fibras, viscera) e sacro (in sede manium). La benignità materna della terra consiste non solo nel dare tutto il necessario, ma anche nell’occultare ciò che nuoce alla vita. Ma la stoltezza umana –mens ad inane evolans– dovrebbe considerare la possibilità che lo sfruttamento delle risorse comporti necessariamente il loro esaurimento – e in questo Plinio è davvero profetico![5]– quae deinde futura sit finis omnibus saeculis exhauriendi eam, indicando ancora una volta quale sia la causa del male: quo usque penetratura avaritia. Tutto questo richiama il topos dell’età dell’oro: Quam innocens, quam beata….
Parimenti Ovidio così descrive l’inizio dell’età del ferro:
Testo 3. Ovidio Met. I, (137- 143)
Ad essa [la terra N.d.T.] non si chiese più soltanto di produrre a profusione le messi e gli alimenti consueti, ma la si penetrò fin nelle viscere per estrarne quelle ricchezze che nascondeva nei luoghi più remoti, vicino alle ombre dello Stige: ricchezze che sono stimolo al male. Ormai erano venuti alla luce il ferro e l’oro, del ferro ancor più nocivo; e fece
la sua comparsa la Guerra, che di ambedue si vale per combattere e agita la armi stridenti nelle mani insanguinate. (trad. G. Faranda Villa. Ovidio, Le Metamorfosi, BUR, 1994)
Nec tantum segetes alimentaque debita dives
poscebatur humus, sed itum est in viscera terrae:
quasque recondiderat Stygiisque admoverat umbris,
effodiuntur opes, inritamenta malorum.
Iamque nocens ferrum ferroque nocentius aurum
prodierat: prodit bellum, quod pugnat utroque,
sanguineaque manu crepitantia concutit arma.
Testo 4. Plinio Nat.Hist. XVIII, 1, 1-5
L’inquinamento
Segue la natura delle messi, dei giardini e dei fiori e le altre cose che, oltre agli alberi o ai cespugli, sono prodotte dalla terra benigna, essendo senza limiti l’oggetto di contemplazione anche soltanto delle erbe, se qualcuno consideri la varietà, il numero, i fiori, gli odori, i colori, i succhi e le loro proprietà, che la terra produce per la salute o per il piacere degli uomini […] Poiché tuttavia proprio per l’argomento della trattazione, nella considerazione della medesima genitrice aggiungiamo anche le cose nocive, la accusiamo dei nostri delitti e le imputiamo la nostra colpa. Ha generato dei veleni. Ma chi li scoprì tranne l’uomo? Per gli uccelli e gli animali selvatici è sufficiente stare attenti e starne lontani. E se gli elefanti e gli uri aguzzano e limano le corna contro un albero, i rinoceronti su un sasso, i cinghiali le zanne, acuminate come pugnali, in entrambi i modi, e gli animali sanno come prepararsi a colpire, chi di loro tranne l’uomo bagna anche le sue armi di veleno? Noi avveleniamo anche le frecce e persino al ferro aggiungiamo qualcosa di più nocivo, noi inquiniamo anche i fiumi e gli elementi della natura, e trasformiamo persino l’aria, grazie a cui si vive, in un flagello mortale. E non è possibile che riteniamo che gli animali ignorino queste cose; abbiamo già spiegato quali mezzi preparino contro gli assalti dei serpenti, quali rimedi escogitino per curarsi dopo la lotta, E nessuno, eccetto l’uomo, combatte con veleno altrui. Ammettiamo dunque la nostra colpa, dato che non ci accontentiamo neppure dei veleni che nascono spontaneamente, quanto più numerosi infatti sono i tipi di veleni fatti dalla mano umana!
E che? Non nascono anche uomini proprio tali quali i serpenti? la loro lingua vibra nera come quella dei serpenti e brucia tutto ciò che tocca il livore dell’animo di coloro che attribuiscono colpe dappertutto e come
uccelli del cattivo augurio che disturbano anche le loro tenebre e la quiete della notte con il loro verso lamentoso, che è la sola voce che hanno, venendo incontro come animali di cattivo auspicio per impedire di agire o di giovare alla vita. E non conoscono alcuna gioia per il loro animo esecrabile che odiare tutto e tutti. Ma anche in questo sta la maestà della natura. Quanto più numerosi sono gli uomini buoni che genera, come buone messi! quanto è più fertile in queste cose che giovano e alimentano! Anche noi per la stima che abbiamo di questi uomini buoni e, lasciati alla loro autocombustione come rovi questi uomini, continuiamo con gioia a prenderci cura della vita e facciamolo con tanto maggiore costanza, quanto maggiore è la gratitudine cui aspiriamo, che deriva dalla nostra opera più che dalla fama. (trad. mia)
Sequitur natura frugum hortorumque ac florum quaeque alia praeter arbores aut frutices benigna tellure proveniunt, vel per se tantum herbarum inmensa contemplatione, si quis aestimet varietatem, numerum, flores, odores coloresque et sucos ac vires earum, quas salutis aut voluptatis hominum gratia gignit. […] Quoniam tamen ipsa materia accedimus ad reputationem eiusdem parentis et noxia: nostris eam criminibus urguemus nostramque culpam illi inputamus. Genuit venena. Set quis invenit illa praeter hominem? Cavere ac refugere alitibus ferisque satis est. Atque cum arbore exacuant limentque cornua elephanti et uri, saxo rhinocerotes, utroque apri dentium sicas, sciantque ad nocendum praeparare se animalia, quod tamen eorum excepto homine et tela sua venenis tinguit? Nos et sagittas tinguimus ac ferro ipsi nocentius aliquid damus, nos et flumina inficimus et rerum naturae elementa, ipsumque quo vivitur in perniciem vertimus.Neque est, ut putemus ignorari ea ab animalibus; quae praepararent contra serpentium dimicationes, quae post proelium ad medendum excogitarent, indicavimus. Nec ab ullo praeter hominem veneno pugnatur alieno. Fateamur ergo culpam ne iis quidem, quae nascuntur, contenti; etenim quanto plura eorum genera humana manu fiunt! quid? non et homines quidem ut venena nascuntur? Atra ceu serpentium lingua vibrat tabesque animi contacta adurit culpantium omnia ac dirarum alitum modo tenebris quoque suis et ipsarum noctium quieti invidentium gemitu, quae sola vox eorum est, ut inauspicatarum animantium vice obvii quoque vetent agere aut prodesse vitae. Nec ullum aliud abominati spiritus praemium novere quam odisse omnia. Verum et in hoc eadem naturae maiestas. Quanto plures bonos genuit ut fruges! quanto fertilior in his, quae iuvent alantque! quorum aestimatione et gaudio nos quoque, relictis exustioni suae istis hominum rubis, pergemus excolere vitam eoque constantius, quo operae nobis maior quam famae gratia expetitur. Quippe sermo circa rura est agrestesque usus, sed quibus vita constet honosque apud priscos maximus fuerit.
Come se non bastasse devastare la terra alterandone la superficie, gli umani le attribuiscono colpe che sono soltanto loro: ci sono veleni prodotti dalla terra, ma solo gli uomini li manipolano e li usano per danneggiarsi a vicenda: nostris eam criminibus urguemus nostramque culpa illi inputamus. Genuit venena. Set quis invenit illa praeter hominem?
Gli animali si combattono tra loro con le armi che sono loro proprie. Ma l’uomo alle armi aggiunge anche il veleno: quod tamen eorum excepto homine et tela sua venenis tinguit?…. Nec ab ullo praeter hominem veneno pugnatur alieno. Notiamo l’efficacia dell’omoteleuto della clausola.
E non si tratta solo delle armi avvelenate, ma il peggio è che l’uomo ha la possibilità, e la usa, di inquinare anche i beni che la natura gli offre: nos et flumina inficimus et rerum naturae elementa, ipsumque quo vivitur in perniciem vertimus. Generalmente si intende ipsum quo vivitur come riferito all’aria che si respira, anche se potrebbe essere inteso in senso più generale come tutto ciò che serve alla vita. Per giunta invece di limitarci a trovare degli antidoti ai veleni, come gli animali che sanno curarsi dai morsi dei serpenti, ne inventiamo di nuovi (quanto plura eorum genera humana manu fiunt!).
Il discorso si sposta poi sul piano morale: c’è anche l’inquinamento prodotto da uomini velenosi come serpenti, la cui presenza contamina tutto ciò che tocca, e che non conoscono altra soddisfazione che l’odio.
L’introduzione al diciottesimo libro si chiude ad anello con una nuova lode della natura così come era cominciato: oltre a tutte le meraviglie che la terra produce, messi, fiori, alberi e frutti, la maestà, l’autorevolezza della natura appare anche negli uomini Quanto plures bonos genuit ut fruges! Fruges in antitesi con gli uomini malvagi definiti metaforicamente “rovi” (istis hominum rubis) E si conclude con l’appello commosso agli uomini di buona volontà a prendersi cura della vita: pergemus excolere vitam.
Gli animali: il divieto di mangiar carne
Sul rapporto tra gli esseri umani e gli animali nel mondo antico si scontrano due visioni opposte: da un lato quella più antica, che considera sacra la vita presente in tutti gli essere animati, dall’altra quella antropocentrica, secondo cui la natura è totalmente al servizio dell’uomo.
L’eccellenza dell’essere umano, sostenuta da Aristotele e dagli Stoici, consiste nell’essere dotato di ragione e di linguaggio. A ciò si aggiungerà il dettato biblico: Dio crea gli animali al servizio dell’uomo e incarica Adamo di dar loro un nome
“18 Dixit quoque Dominus Deus: “Non est bonum esse hominem solum; faciam ei adiutorium simile sui”.
19 Formatis igitur Dominus Deus de humo cunctis animantibus agri et universis volatilibus caeli, adduxit ea ad Adam, ut videret quid vocaret ea; omne enim, quod vocavit Adam animae viventis, ipsum est nomen eius.
20 Appellavitque Adam nominibus suis cuncta pecora et universa volatilia caeli et omnes bestias agri; Adae vero non inveniebatur adiutor similis eius.” (Gen. 2, 18-20);
dare il nome equivale a una presa di possesso. Dall’altra parte invece si afferma la sostanziale unità di tutti viventi e si riconosce la sensibilità e la soffrenza negli animali. Che gli animali siano dotati di sensibilità e di affetti appare già nei poemi omerici (il cane Argo e le lacrime di Odisseo Hom. Od., XVII, 290-327 ) e ritroviamo il tema in Lucrezio quando dimostra che gli animali sanno riconoscersi (De rerum Nat. II, 342-370).
Il divieto di mangiare carne fondato sulla teoria della metempsicosi ha origini antichissime: è orfico tanto quanto pitagorico. A ciò si aggiunge il mito dell’età aurea, di un mondo innocente, in cui non c’era alcun bisogno di procurarsi il cibo in modo cruento, perché la terra forniva spontaneamente i suoi prodotti, dunque l’uso di uccidere gli animali per cibarsene era subentrato nelle età successive con la progressiva degenerazione dell’umanità. Il vegetarianesimo costituisce parte importante dell’ideologia ovidiana dell’aurea aetas, come è facile comprendere da Met.I,101-6 e soprattutto da XV, 96 e segg.
Testo 1. Ov.,Met. I, 101- 105
La terra poi, libera da costrizioni, non lavorata dal rastrello o ferita dall’aratro, produceva tutto spontaneamente; gli uomini, accontentandosi dei cibi che crescevano senza bisogno di coltura, raccoglievano i corbezzoli, le fragole selvatiche, le corniole e le more tra le spine dei roveti, nonché le ghiande che cadevano dall’ampia chioma dell’albero di Giove. (trad. di Giovanna Faranda Villa. Ovidio, Le Metamorfosi. BUR. 1994)
“Ipsa quoque inmunis rastroque intacta nec ullis
saucia vomeribus per se dabat omnia tellus,
contentique cibis nullo cogente creatis
arbuteos fetus montanaque fraga legebant
cornaque et in duris haerentia mora rubetis
et, quae deciderant patula Iovis arbore, glandes.“
Ogni uomo che si ciba di carni di animali è in questa visione dalle tinte esasperate ‘un cannibale’ al pari di Tieste; così infatti si esprime Pitagora nelle Metamorfosi esortando a non cibarsi di carne: neve Thyesteis cumulemus viscera mensis (XV,462). Il tema è ampiamente trattato da Ovidio: già accennato nel I libro delle Metamorfosi, viene ripreso con il discorso di Pitagora, che occupa circa metà del libro XV (vv. 75-478), in cui il precetto che vieta di mangiare carne si fonda qui su una teoria fisica: la teoria della migrazione delle anime infatti è collegata con la teoria della trasformazione universale. Il discorso fatto pronunciare da Pitagora ha un tono ispirato e profetico, e nello stesso tempo presenta una struttura argomentativa serrata[6]. In breve: gli esseri umani hanno a disposizione cibo in abbondanza fornito dalla terra. È proprio degli animali cibarsi di carne, e non di tutti, ma solo di quelli di indole malvagia (quibus ingenium est inmansuetumque ferumque v.85). L’età dell’oro ignorava questo uso che ebbe inizio con l’uccisione per necessità di belve feroci, a cui fece seguito la soppressione di animali domestici responsabili di qualche danno ai seminati o ai raccolti. Ma è ingrato, oltre che crudele, chi uccide gli animali che lavorano insieme a lui, come il bue, o che gli danno qualche bene prezioso, come la lana o il latte. Ancor più empio pensare che gli dei richiedano questi sacrifici di animali (vv.127-129). Gli uomini agiscono così perché sono privi della guida della ragione e hanno paura di ogni cosa, soprattutto della morte, ignorando che l’anima non muore con il corpo, ma trasmigra in un altro essere (vv. 153-172). Viene enunciata a questo punto la legge della trasformazione che opera in tutti gli aspetti dell’universo (omnia mutantur, nihil interit. v. 165. ”tutto muta, nulla perisce”), si conclude con la profezia del destino di Roma (186-452). Dalla teoria della metempsicosi deriva come corollario il divieto di cibarsi di carne (453-478). La compassione (nel senso etimologico di sun-pajhia) investe tutte le creature viventi, tutte partecipi dello stesso principio vitale.
Testo 2 a) Il discorso di Pitagora Ov. Metam. XV vv. 75-98
Smettetela, uomini di profanare i vostri corpi con cibi empi! Ci sono le messi, ci sono gli alberi stracarichi di frutti, ci sono turgidi grappoli d’uva sulle viti! Ci sono erbe dolci e tenere, altre che si possono addolcire e ammorbidire con la cottura. Avete a disposizione il latte e il miele profumato di timo. La terra nella sua generosità vi propone in abbondanza blandi cibi e vi offre banchetti senza stragi e sangue. Sono le bestie a soddisfare la loro fame con la carne e nemmeno tutte! I cavalli, le pecore e i bovi vivono d’erba. Invece quelle che hanno una natura indomabile e feroce: le tigri d’Armenia, i rebbiosi leoni, i lupi e gli orsi, pretendono cibo sanguinolento. Che enorme delitto è ingurgitare viscere altrui nelle proprie, far ingrassare il proprio corpo ingordo a spese di altri corpi, e vivere, noi animali,[7] della morte di altri animali! Ti par possibile che fra tanto ben di dio che produce la terra, ottima tra le madri, a te non piaccia masticore altro con i tuoi denti crudeli che carne ferita, riportando in voga le abitudini dei Ciclopi? E non riuscirai a placare le brame del tuo ventre vorace e male abituato se non uccidendo un altro? Eppure quell’antica età, cui abbiamo dato il nome di “aurea”, fu felice perché gli uomini vivevano dei frutti degli alberi e delle erbe prodotte dalla terra, e le bocche non erano contaminate dal sangue. (trad. di G. Faranda Villa. Ovidio, Le Metamorfosi. BUR. 1994)
“Parcite, mortales, dapibus temerare nefandis
corpora! sunt fruges, sunt deducentia ramos
pondere poma suo tumidaeque in vitibus uvae,
sunt herbae dulces, sunt quae mitescere flamma
mollirique queant; nec vobis lacteus umor
eripitur, nec mella thymi redolentia florem:
prodiga divitias alimentaque mitia tellus
suggerit atque epulas sine caede et sanguine praebet.
carne ferae sedant ieiunia, nec tamen omnes:
quippe equus et pecudes armentaque gramine vivunt;
at quibus ingenium est inmansuetumque ferumque,
Armeniae tigres iracundique leones
cumque lupis ursi, dapibus cum sanguine gaudent.
heu quantum scelus est in viscera viscera condi
ingestoque avidum pinguescere corpore corpus
alteriusque animans animantis vivere leto!
scilicet in tantis opibus, quas, optima matrum,
terra parit, nil te nisi tristia mandere saevo
vulnera dente iuvat ritusque referre Cyclopum,
nec, nisi perdideris alium, placare voracis
et male morati poteris ieiunia ventris!
«At vetus illa aetas, cui fecimus aurea nomen,
fetibus arboreis et, quas humus educat, herbis
fortunata fuit nec polluit ora cruore.”
Pitagora si rivolge agli uomini con un’invocazione accorata che esprime religioso sgomento per l’empietà di cui è testimone: “Parcite, mortales, dapibus temerare nefandis/corpora!” Mangiare questi cibi nefandi, illeciti, è una profanazione del corpo (temerare corpora) che li ingerisce, perché, come poi spiega più chiaramente, il delitto – scelus – consiste nella affinità di chi mangia con chi è mangiato, cioè tra esseri che condividono l’appartenenza alla comunità dei viventi, tre volte sottolineata dal poliptoton in tre versi successivi, e l’efferatezza del delitto appare dall’antitesi che li chiude: “vivere della morte” (heu quantum scelus est in viscera viscera condi/ingestoque avidum pinguescere corpore corpus/alteriusque animans animantis vivere leto!)
L’orrore per il sangue si esprime nel richiamo all’età aurea, quando le bocche non ne erano contaminate, profanate: nec polluit ora cruore. Osserviamo che cruor è il sangue vivo, di un essere vivente ucciso.
Testo 2 b) Ovidio Metam. XV, 456- 478
“Quindi anche noi che siamo parte del mondo, dato che non siamo solo corpi, ma anche anime alate e possiamo trasferirci in altra sede, cioè nelle fiere e negli animali di un gregge, rispettiamo e concediamo la sicurezza a quei corpi in cui può darsi che alberghino anime di genitori, di fratelli o di altri che possono essere in qualche modo legati a noi, o comunque di esseri umani: evitiamo di riempirci le viscere con cibi degni di Tieste! Che tremende abitudini contrae e come si prepara a versare empiamente sangue umano colui che taglia con un coltello la gola di un vitellino, senza lasciarsi turbare dai muggiti che giungono alle sue orecchie! Colui che può sgozzare un capretto che emette lamenti simili ai vagiti di un bambino o cibarsi di un uccello a cui ha dato lui stesso da mangiare! Quanto manca a gente del genere per compiere un vero e proprio delitto? Se si comincia così, dove si andrà a finire? Lasciate che il bue ari e debba la sua morte alla vecchiaia, che la pecora ci procuri il mezzo per difenderci contro i rigori di Borea, che la capra ci offra le sue poppe da mungere! Eliminate le reti, le trappole, i cappi, tutte le insidie! Non preparate tranelli agli uccelli con bastoni spalmati di vischio, né ai cervi con spauracchi coperti di penne e non nascondete ami adunchi sotto esche ingannatrici! Uccidete le bestie che fanno del male, ma limitatevi a ucciderle! Le vostre bocche non se ne cibino e si nutrano solo di alimenti incruenti!” . (trad. di G. Faranda Villa. Ovidio, Le Metamorfosi. BUR. 1994)
“Nos quoque, pars mundi, quoniam non corpora solum,
verum etiam volucres animae sumus, inque ferinas
possumus ire domos pecudumque in pectora condi,
corpora, quae possint animas habuisse parentum
aut fratrum aut aliquo iunctorum foedere nobis
aut hominum certe, tuta esse et honesta sinamus
neve Thyesteis cumulemus viscera mensis!
quam male consuescit, quem se parat ille cruori
inpius humano, vituli qui guttura ferro
rumpit et inmotas praebet mugitibus aures,
aut qui vagitus similes puerilibus haedum
edentem iugulare potest aut alite vesci,
cui dedit ipse cibos! quantum est, quod desit in istis
ad plenum facinus? quo transitus inde paratur?
bos aret aut mortem senioribus inputet annis,
horriferum contra borean ovis arma ministret,
ubera dent saturae manibus pressanda capellae!
retia cum pedicis laqueosque artesque dolosas
tollite! nec volucrem viscata fallite virga
nec formidatis cervos includite pinnis
nec celate cibis uncos fallacibus hamos;
perdite siqua nocent, verum haec quoque perdite tantum:
ora cruore vacent alimentaque mitia carpant!”
La conclusione è altrettanto accorata: dopo aver dimostrato che uno stretto vincolo unisce tutti i viventi (nos quoque, pars mundi, quoniam non corpora solum,/verum etiam volucres animae sumus), accennando alla teoria della metempsicosi, Pitagora rinnova, a maggior ragione, l’esortazione ad evitare di uccidere animali per poi cibarsene: una nefandezza che si può paragonare a un atto di cannibalismo, come appare dal riferimento all’orrendo mito di Atreo e Tieste[8] (neve Thyesteis cumulemus viscera mensis!), in cui si legge un’allusione evidente al modello tragico di Accio, natis sepulcro ipse est parens (Atreus v. 226 TRF) (Il padre stesso fa da sepolcro ai figli)
L’esecrazione della crudeltà risalta dalle immagini successive: la gola tagliata del vitellino, i muggiti della madre, i belati del capretto simili a vagiti di bimbi (vituli qui guttura ferro/ rumpit et inmotas praebet mugitibus aures /aut qui vagitus similes puerilibus haedum/edentem iugulare potest ), l’indifferenza per gli animali domestici: la gallina, il bue, la pecora, le caprette. Si nota il risalto che viene dato a questi animali dalla posizione all’inizio, al centro e alla fine di verso (bos …ovis …. capellae!). Lo stesso diritto alla vita vale anche per gli animali selvatici, che non devono essere ingannati da trappole o da esche crudeli. L’attenzione però non è rivolta solo alla salvaguardia degli animali, ma subentra ripetutamente la considerazione che l’abitudine alla crudeltà prelude al delitto, dall’uccisione degli animali a quella di un altro uomo il passo è breve: Quam male consuescit, quam se parat ille cruori/ inpius humano qui … / Quantum est, quod desit in istis /ad plenum facinus? quo transitus inde paratur? Infine, se è necessario uccidere animali pericolosi, vale il diritto alla legittima difesa, ma non per questo sarebbe meno empio cibarsi di carni in cui scorreva il sangue: ora cruore vacent alimentaque mitia carpant!
Testo 3. Seneca, Ep. ad Luc. 108, 17-22
Ma lo stoico non sente la necessità di rinunciare alla carne
- Dato che ho cominciato a raccontarti come da giovane io mi sia avvicinato alla filosofia con uno slancio maggiore di quello con cui continuo da vecchio, non mi vergognerò di confessarti quale amore mi ispirò Pitagora. Sozione spiegava per quale motivo Pitagora si fosse astenuto dal mangiar carne e in seguito Sestio. Le loro motivazioni erano diverse, ma bellissime per entrambi.
- Secondo Sestio l’uomo ha una quantità sufficiente di alimenti senza bisogno di versare sangue e riteneva che si crei un’abitudine alla crudeltà, quando l’atto di smembrare finisce per diventare un piacere. Aggiungeva poi che bisogna limitare il campo dei piaceri; e concludeva che la varietà di cibi è nociva per la salute e dannosa per il nostro corpo.
- Pitagora, invece, affermava che esiste una parentela di tutti gli esseri fra loro e che c’è una relazione tra le anime che trasmigrano in forme di vita diverse. Nessuna anima muore, se gli dai retta, e neppure cessa di agire, se non nel breve istante in cui si trasferisce in un altro corpo. Vedremo poi attraverso quali avvicendamenti nel tempo, e quando l’anima ritorni in un uomo, dopo esser passata per diverse dimore: intanto ha fatto nascere negli uomini la paura di un delitto e di un parricidio, dal momento che potrebbero imbattersi inconsapevolmente nell’anima di un genitore e di farle violenza con il coltello o con i morsi, se in qualche corpo albergasse qualche spirito consanguineo.
- Dopo avere esposto queste teorie rafforzandole con le proprie argomentazioni, Sozione[9] mi chiese: “Non credi che le anime siano assegnate ora a un corpo, ora ad un altro e che ciò che chiamiamo morte sia una migrazione? Non credi che negli animali domestici o selvatici o acquatici dimori un’anima che un tempo fu di un uomo? Non credi che nulla perisca in questo mondo, ma semplicemente cambi luogo? Che non soltanto i corpi celesti percorrano un cammino prefissato, ma che anche gli esseri animati vadano per fasi alterne e che le anime seguano un’orbita?
- Grandi uomini hanno creduto a queste teorie. Sospendi perciò il tuo giudizio, per il resto riservati tutto da decidere. Se queste teorie sono vere, l’astenersi dalle carni significa assenza di colpa; se sono false, significa sobrietà. Che danno c’è in questo caso nel crederci? Ti sottraggo i cibi dei leoni e degli avvoltoi.”
- Colpito da questi discorsi, mi astenni dalle carni e, trascorso un anno, era diventata per me un’abitudine non solo facile, ma anche piacevole. Avevo la sensazione che il mio spirito fosse più vivace, ma oggi non potrei affermare con sicurezza se lo fosse veramente. Vuoi sapere come io abbia smesso? La mia giovinezza coincideva con il primo periodo del principato di Tiberio: allora i culti stranieri erano banditi e l’astinenza dalle carni di certi animali era considerata una prova di pratiche superstiziose. Per le preghiere di mio padre, che non temeva le calunnie, ma odiava la filosofia, ritornai alle vecchie abitudini; ed egli senza fare molta fatica mi persuase a cominciare a mangiare meglio. (trad. mia)
17. Quoniam coepi tibi exponere quanto maiore impetu ad philosophiam iuvenis accesserim quam senex pergam, non pudebit fateri quem mihi amorem Pythagoras iniecerit. Sotion[1] dicebat quare ille animalibus abstinuisset, quare postea Sextius. Dissimilis utrique causa erat, sed utrique magnifica.
18. Hic homini satis alimentorum citra sanguinem esse credebat et crudelitatis consuetudinem fieri ubi in voluptatem esset adducta laceratio. Adiciebat contrahendam materiam esse luxuriae; colligebat bonae valetudini contraria esse alimenta varia et nostris aliena corporibus.
19. At Pythagoras omnium inter omnia cognationem esse dicebat et animorum commercium in alias atque alias formas transeuntium. Nulla, si illi credas, anima interit, ne cessat quidem nisi tempore exiguo, dum in aliud corpus transfunditur. Videbimus per quas temporum vices et quando pererratis pluribus domiciliis in hominem revertatur: interim sceleris hominibus ac parricidii metum fecit, cum possent in parentis animam inscii incurrere et ferro morsuve violare, si in quo <corpore> cognatus aliqui spiritus hospitaretur.
20. Haec cum exposuisset Sotion et implesset argumentis suis, ‘non credis’ inquit ‘animas in alia corpora atque alia discribi et migrationem esse quod dicimus mortem? Non credis in his pecudibus ferisve aut aqua mersis illum quondam hominis animum morari? Non credis nihil perire in hoc mundo, sed mutare regionem? nec tantum caelestia per certos circuitus verti, sed animalia quoque per vices ire et animos per orbem agi? Magni ista crediderunt viri.
21. Itaque iudicium quidem tuum sustine, ceterum omnia tibi in integro serva. Si vera sunt ista, abstinuisse animalibus innocentia est; si falsa, frugalitas est. Quod istic credulitatis tuae damnum est? alimenta tibi leonum et vulturum eripio.’
22. His ego instinctus abstinere animalibus coepi, et anno peracto non tantum facilis erat mihi consuetudo sed dulcis. Agitatiorem mihi animum esse credebam nec tibi hodie adfirmaverim an fuerit. Quaeris quomodo desierim? In primum Tiberii Caesaris principatum iuventae tempus inciderat: alienigena tum sacra movebantur et inter argumenta superstitionis ponebatur quorundam animalium abstinentia. Patre itaque meo rogante, qui non calumniam timebat sed philosophiam oderat, ad pristinam consuetudinem redii; nec difficulter mihi ut inciperem melius cenare persuasit.
Come si vede dalla lettera di Seneca, lo stoico non ha difficoltà a cibarsi di carne. Dopo un’infatuazione giovanile per la filosofia, suggestionato da Pitagora, per motivi altrettanto contingenti, le esortazioni del padre e l’editto di Tiberio, dopo un anno ritorna alla dieta carnivora.
Non che il regime vegetariano abbia qualche controindicazione: Seneca apprezza le motivazioni di Sestio: evitare l’abitudine alla crudeltà, ridurre tutto ciò che induce alla sregolatezza, proteggere la salute (crudelitatis consuetudinem …. contrahendam materiam esse luxuriae; colligebat bonae valetudini contraria esse alimenta varia). Le sintetizza nei parallelismi credebat, adiciebat, colligebat. Riferisce più diffusamente le argomentazioni del suo maestro Sozione, con un discorso diretto, in cui abbondano le interrogative retoriche a sostegno della teoria della metempsicosi. Ma infine, evidentemente di fronte alle perplessità dell’allievo, il maestro fa marcia indietro: la pensi pure come crede sulla trasmigrazione delle anime, ma astenersi dalla carne è pur sempre un bene: Si vera sunt ista, abstinuisse animalibus innocentia est; si falsa, frugalitas est.
Ma il giovane Seneca abbandona le suggestioni della filosofia pitagorica quando, nel 19, la Scuola dei Sestii viene chiusa in seguito all’editto di Tiberio che vieta i culti stranieri. Ci si mette anche il padre, che detesta la filosofia, nec difficulter mihi ut inciperem melius cenare persuasit. Dopo tutto, stoico sì, ma buongustaio.
Testo 4. a) Plutarco Sulla sarcofagia A’ e B’ o De esu carnium
L’orrore del sangue
Con questo titolo sono stati tramandati due brevi scritti incompleti, probabilmente la trascrizione di due conferenze, loégoi, in cui Plutarco sostiene il divieto di mangiar carne con diverse argomentazioni che riprendono la lunga tradizione precedente, inizia infatti con il nome di Pitagora. Ma in primo luogo esprime la repulsione per il contatto con il sangue e con la morte, che costituisce una forma di contaminazione.
1. 993 a, b, c. Tu vuoi sapere secondo quale criterio Pitagora si astenesse dal mangiar carne, mentre io mi domando con stupore in quale circostanza e con quale disposizione spirituale l’uomo toccò per la prima volta con la bocca il sangue e sfiorò con le labbra la carne di un animale morto: e imbandendo mense di corpi morti e corrotti, diede altresì il nome di manicaretti e di delicatezze a quelle membra che poco prima muggivano e gridavano, si muovevano e Come poté la vista tollerare il sangue di creature sgozzate, scorticate, smembrate, come riuscì l’olfatto a sopportarne il fetore? come mai quella lordura non stornò il senso del gusto, che veniva a contatto con le piaghe di altre creature e che sorbiva umori e sieri essudati da ferite mortali? (trad. di D. Magini. Plutarco Del mangiar carne. Trattati sugli animali, Adelphi, 2001)
1. 993 a, b, c. ἀλλὰ σὺ μὲν ἐρωτᾷς; τίνι λόγῳ Πυθαγόρας ἀπείχετο σαρκοφαγίας, ἐγὼ δὲ θαυμάζω καὶ τίνι pάθει καὶ ποίᾳ ψυχῇ ἢ λόγῳ ὁ πρῶτος ἄνθρωπος ἥψατο φόνου στόματι καὶ τεθνηκότος ζῴου χείλεσι προσήψατο σαρκός: καὶ νεκρῶν σωμάτων καὶ ἑώλων προθέμενος τραπέζας ὄψα καὶ τρυφὰς καὶ προσέτι εἰπεῖν τὰ μικρὸν ἔμπροσθεν βρυχώμενα μέρη καὶ φθεγγόμενα καὶ κινούμενα καὶ βλέποντα: πῶς ἡ ὄψις ὑπέμεινε τὸν φόνον σφαζομένων δερομένων διαμελιζομένων, πῶς ἡ ὄσφρησις ἤνεγκε τὴν ἀποφοράν πῶς τὴν γεῦσιν οὐκ ἀπέτρεψεν ὁ μολυσμὸς ἑλκῶν ψαύουσαν ἀλλοτρίων καὶ τραυμάτων θανασίμων χυμοὺς: καὶ ἰχῶρας ἀπολαμβάνουσαν.
Inoltre questa abitudine non risponde a una necessità, data l’abbondanza dei prodotti della terra. In questo caso scompare però il mito dell’età aurea: al contrario si direbbe che l’età più felice sia la presente, in cui l’abbondanza è garantita, mentre si può giustificare il ricorso all’uccisione degli uomini primitivi, spinti dall’istinto di sopravvivenza. Da parte sua Plutarco insiste sulla sensibilità degli animali e sulla crudeltà umana, che assume il carattere di vera e propria empietà. Il fatto che esistano animali nocivi non giustifica affatto la ricerca della carne come cibo. Non si vede solo la crudeltà dei corpi smembrati sulle tavole imbandite dei ricchi, ma per giunta lo spreco nella quantità degli avanzi gettati.
Nulla turba il nostro senso del pudore, non il fiorente aspetto di queste creature sventurate, non il fascino della loro voce armoniosa, non l’accortezza della loro mente, né la purezza del loro modo di vivere e la loro straordinaria intelligenza. invece per un minuscolo pezzo di carne priviamo un essere vivente della luce del sole e del corso dell’esistenza per cui esso è nato ed è stato generato. Per di più crediamo che i suoni e le strida che gli animali emettono siano voci inarticolate e non piuttosto preghiere, suppliche e richieste di giustizia: poiché ognuno di loro proclama: “Non cerco di scongiurare la tua necessità, ma la tua tracotanza, uccidimi per mangiare, ma non togliermi la vita per mangiare in modo più raffinato.” Che crudeltà! Ė terribile infatti vedere imbandite le mense dei ricchi, che usano i cuochi, professionisti o semplici cucinieri, come acconciatori di cadaveri; ma è ancora più terribile vedere quando esse vengono sparecchiate: perché gli avanzi sono più abbondanti di quanto è stato consumato. Queste creature dunque sono morte inutilmente! (Trad. idem)
ἀλλ᾽ οὐδὲν ἡμᾶς δυσωπεῖ, οὐ χρόας ἀνθηρὸν εἶδος, οὐ φωνῆς ἐμμελοῦς πιθανότης, οὐ πανουργία ψυχῆς, οὐ τὸ καθάριον ἐν διαίτῃ καὶ περιττὸν ἐν συνέσει τῶν ἀθλίων, ἀλλὰ σαρκιδίου μικροῦ χάριν ἀφαιρούμεθα ψυχῆς ἥλιον, φῶς, τὸν τοῦ βίου χρόνον, ἐφ᾽ ᾧ γέγονε καὶ πέφυκεν. εἶθ᾽ ἃς φθέγγεται καὶ διέτρισε φωνὰς ἀνάρθρους εἶναι δοκοῦμεν, οὐ παραιτήσεις καὶ δεήσεις καὶ δικαιολογίας ἑκάστου λέγοντος ‘οὐ παραιτοῦμαί σου τὴν ἀνάγκην ἀλλὰ τὴν ὕβριν, ἵνα φάγῃς ἀπόκτεινον, ἵνα δ᾽ ἥδιον φάγῃς μὴ μ᾽ ἀναίρει’ ὢ τῆς ὠμότητος δεινὸν μέν ἐστι καὶ τιθεμένην ἰδεῖν τράπεζαν ἀνθρώπων πλουσίων νεκροκόσμοις χρωμένων μαγείροις καὶ ὀψοποιοῖς, δεινότερον δ᾽ ἀποκομιζομένην πλείονα γὰρ τὰ λειπόμενα τῶν βεβρωμένων ἐστίν οὐκοῦν ταῦτα μάτην ἀπέθανεν.
In secondo luogo l’uso di mangiar carne non è di origine naturale, perché il corpo umano presenta evidenti differenze da quello degli animali carnivori. Anzi a noi la carne fa male. Se però qualcuno fosse convinto di essere nato carnivoro, che ammazzi l’animale che vuol mangiare con le sue stesse mani, lo sbrani ancora vivo, invece di aspettare che gli venga servito cotto e condito. Naturalmente è un invito paradossale, tuttavia avvalora la tesi che l’essere umano ha un atteggiamento ambiguo nel contatto con il sangue.
Testo 4 b) Plutarco, De esu carnium
Nel secondo discorso, Plutarco riprende considerando la perversione che si manifesta nell’uccisione degli animali, spesso infatti l’uccisione è preceduta da sevizie che vengono loro inflitte per rendere le carni più appetitose. In questo ravvisa un eccesso colpevole, che dimostra una volta di più che non è la necessità alla base di questa pratica, ma la ricerca smodata del piacere e la violenza; si sviluppa così quell’istinto sanguinario che apre ben presto la strada alle stragi fratricide e alle guerre.
Freschi come siamo nelle idee e nello zelo, la ragione ci sollecita a riprendere il discorso di ieri sull’uso di mangiare la carne. Ė davvero difficile, come diceva Catone, parlare al ventre che non ha orecchie. Si è inoltre bevuta la pozione dell’abitudine, che, come quella di Circe, “mescola dolori e affanni, inganni e lamenti”. Non è semplice estrarre l’amo del mangiare carne, impigliato e conficcato com’è nella brama del piacere. Davvero sarebbe un bene […] se noi dessimo un taglio alla nostra ingordigia e alla nostra sete di sangue, e ci mantenessimo puri per tutto il resto della vita. non è infatti il ventre ad essere sanguinario, ma esso è contaminato di sangue dalla nostra incontinenza. Tuttavia, sebbene sia ormai impossibile mantenerci immuni dall’errore per la consuetudine che ci lega ad esso, provando vergogna agiremo male. Mangeremo sì la carne, ma spinti dalla fame e non per ingordigia. Uccideremo sì un animale ma provando per esso pietà e dolore, non usando la violenza né torturandolo. Tali sono le sevizie che oggi vengono sovente commesse […]. Da tali orrori risulta del tutto evidente che costoro hanno trasformato in piacere la violenza non per nutrirsi, né perché siano spronati dal bisogno, ma per insolenza, ingiustizia e lusso smodato…(Trad. idem)
χαλεπὸν μὲν γάρ, ὥσπερ ὁ Κάτων ἔφησε, λέγειν πρὸς γαστέρας ὦτα μὴ ἐχούσας: καὶ πέποται ὁ τῆς συνηθείας κυκεών, ὥσπερ ὁ τῆς Κίρκης ὠδίνας ὀδύνας κυκεὼν ἀπάτας τε γόους τε:
καὶ τὸ ἄγκιστρον ἐκβάλλειν τῆς σαρκοφαγίας ὡς ἐμπεπηγμένον τῇ φιληδονίᾳ καὶ διαπεπαρμένον οὐ ῥᾴδιόν ἐστιν. ἐπεὶ καλῶς εἶχεν,[….] ἡμᾶς ἑαυτῶν τὴν γαστριμαργίαν καὶ μιαιφονίαν ἐκτεμόντας ἁγνεῦσαι τὸν λοιπὸν βίον ἐπεὶ ἥ γε γαστὴρ οὐ μιαιφόνον ἐστὶν ἀλλὰ μιαινόμενον ἀπὸ τῆς ἀκρασίας. οὐ μὴν ἀλλ᾽ εἰ καὶ ἀδύνατον νὴ Δία διὰ τὴν συνήθειαν τὸ ἀναμάρτητον, αἰσχυνόμενοι τῷ ἁμαρτάνοντι χρησόμεθα διὰ τὸν λόγον, ἐδόμεθα σάρκας, ἀλλὰ πεινῶντες οὐ τρυφῶντες: ἀναιρήσομεν ζῷον, ἀλλ᾽ οἰκτείροντες καὶ ἀλγοῦντες, οὐχ ὑβρίζοντες οὐδὲ βασανίζοντες: οἷα νῦν πολλὰ δρῶσιν [ ….] ἐξ ὧν καὶ μάλιστα δῆλόν ἐστιν, ὡς οὐ διὰ τροφὴν οὐδὲ χρείαν οὐδ᾽ ἀναγκαίως ἀλλ᾽ ὑπὸ κόρου καὶ ὕβρεως καὶ πολυτελείας ἡδονὴν πεποίηνται τὴν ἀνομίαν…
τίνες οὖν ὕστερον τοῦτ᾽ ἔγνωσαν;
οἳ πρῶτοι κακοεργὸν ἐχαλκεύσαντο μάχαιραν
εἰνοδίην, πρῶτοι δὲ βοῶν ἐπάσαντ᾽ ἀροτήρων.[2]
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[1] Sozione di Alessandria fu un filosofo pitagorico del I sec., che visse a Romma e fece parte della scuola dei Sestii, seguaci del pitagorismo e dello stoicismo.
[2] Arato, Phaenomena, 131 f
L’uccisione di un essere vivente infatti è sempre un eccesso e un’empietà. La teoria della metempsicosi, già accennata nel primo discorso, viene citata come una delle motivazioni della necessità di astenersi dalla carne: Plutarco non la ritiene del tutto attendibile, ma tuttavia degna di considerazione. Infatti il concetto su cui insiste ripetutamente è la constatazione che tra tutti gli esseri viventi c’è un profondo legame di condivisione, anche senza bisogno di pensare alla trasmigrazione delle anime.
Chi dunque introdusse successivamente questa usanza?
“ quelli che per primi forgiarono lo scellerato pugnale/ che colpisce nelle strade, per primi si cibarono dei buoi aratori”. (Arato Phaenomena, 131 f)
Allo stesso modo i tiranni inaugurarono i loro omicidi […] analogamente in origine gli uomini divorarono un animale selvatico e dannoso, poi dilaniarono un uccello o un pesce; in tal modo la loro natura sanguinaria, dopo aver gustato il sangue e aver fatto preliminarmente pratica su quegli animali, si rivolse al bue laborioso, alla pecora mite e al gallo guardiano della casa: una volta che ebbero così gradualmente temprato la propria insaziabilità, gli uomini si volsero alle stragi dei loro simili, ai delitti e alle guerre. (trad. idem)
οὕτω τοι καὶ οἱ τυραννοῦντες ἄρχουσι μιαιφονίας. […] οὕτω τὸ πρῶτον ἄγριόν τι ζῷον ἐβρώθη καὶ κακοῦργον, εἶτ᾽ ὄρνις τις ἢ ἰχθὺς εἵλκυστο καὶ γευσάμενον οὕτω καὶ προμελετῆσαν ἐν ἐκείνοις τὸ φονικὸν ἐπὶ βοῦν ἐργάτην ἦλθε καὶ τὸ κόσμιον πρόβατον καὶ τὸν οἰκουρὸν ἀλεκτρυόνα καὶ κατὰ μικρὸν οὕτω τὴν ἀπληστίαν στομώσαντες ἐπὶ σφαγὰς ἀνθρώπων καὶ πολέμους καὶ φόνους προῆλθον.
Testo 4.c) Plutarco, De esu carnium
Nella conclusione sferra un attacco pungente agli Stoici, così compresi nella svalutazione del piacere, che non vedono però la perversione nel desiderio di cibi troppo raffinati a prezzo della vita di esseri viventi, che secondo loro non ci sono affini perché “privi di ragione”. Affermazione questa, che Plutarco smentisce decisamente in due trattati dei Moralia: Sull’intelligenza degli animalidi terra e di mare (Πότερα τῶν ζῴων φρονιμώτερα τὰ χερσαία ἢ τὰ ἔνυδρα – De sollertia animalium) e Gli animali usano la ragione (Περὶ τοῦ τὰ ἄλογα λόγῳ χρῆσθαι – Bruta animalia ratione uti).
Perché proprio loro, [gli Stoici – N.d.C.] che considerano effeminato il piacere e lo screditano come se non si trattasse né di un “bene”, né di una “cosa preferita”, né di qualcosa di “conveniente all’uomo”, si preoccupano tanto dei piaceri superflui? Certo sarebbe coerente da parte loro, visto che bandiscono aromi e manicaretti dai conviti, se provassero un’avversione anche maggiore per il sangue e per la carne. Invece, quasi filosofassero sui libri dei conti giornalieri, essi eliminano dai banchetti le spese relative alle cose inutili e superflue, mentre non evitano la componente feroce e sanguinaria del lusso. “Certo – dicono- noi uomini non abbiamo nessuna parentela con gli esseri irrazionali” (trad. idem)
τί τὴν ἡδονὴν θηλύνοντες καὶ διαβάλλοντες ὡς οὔτ᾽ ἀγαθὸν οὔτε προηγούμενον οὔτ᾽ οἰκεῖον οὕτω περὶ τὰ τῶν ἡδονῶν ἐσπουδάκασι; καὶ μὴν ἀκόλουθον ἦν αὐτοῖς, εἰ μύρον ἐξελαύνουσι καὶ πέμμα τῶν συμποσίων, μᾶλλον αἷμα καὶ σάρκα δυσχεραίνειν. νῦν δ᾽ ὥσπερ εἰς τὰς ἐφημερίδας φιλοσοφοῦντες δαπάνην ἀφαιροῦσι τῶν δείπνων ἐν τοῖς ἀχρήστοις καὶ περιττοῖς, τὸ δ᾽ ἀνήμερον τῆς πολυτελείας καὶ φονικὸν οὐ παραιτοῦνται. ‘ναί, φησίν, οὐδὲν γὰρ ἡμῖν πρὸς τὰ ἄλογα δίκαιον ἔστιν.’
Breve bibliografia
Cinzia Bearzot, Uomo e ambiente nel mondo antico, «Rivista della Scuola Superiore di Economia e
delle Finanze» 8/9 (2004), Disponibile on line http://www.rivista.ssef.it/www.rivista.ssef.it/site8682.html?page=20040705142022807&editio
n=2010-02-01
Paolo Fedeli, La natura violata: ecologia e mondo romano, Sellerio, Palermo 1990
Giorgio Nebbia, L’ecologia nell’antichità, “Gazzetta del Mezzogiorno” 01.02.1992, liberamente consultabile e scaricabile in pdf all’indirizzo http://www.fondazionemicheletti.it/nebbia/sm-1616-lecologia-nellantichita-1992/
Plutarco, Del mangiare carne. Trattati sugli animali, a cura di Dario Del Corno e Donatella Magini, Milano, Adelphi, 2001
Seneca, Lettere a Luculio, a cura di U. Boella, ed. UTET, 1951
Ovidio, Le Matamorfosi,, trad. di G. Faranda Villa, Biblioteca Universale Rizzoli, 1996
© Luciana Preti, 2017
[1] si definisce così la misura che valuta il consumo di risorse naturali che non sono inesauribili.
[2] Tinia: località sul Mar Nero, che taluni localizzano sulla costa Europea, dove vive Fineo.
[3] Fineo, l’indovino, è diventato cieco per una punizione divina, su cui si hanno tradizioni diverse.
[4] un binomio indicato come la causa di ogni male dai filosofi stoici e come l’origine della degenerazione politica dagli storici
[5] – ciò che ora misuriamo come “impronta ecologica”.
[6] Ma il discorso ha un carattere sincretistico e include elementi di varia provenienza. Già Empedocle di Agrigento (V sec. a. C.) aveva sostenuto il divieto di cibarsi di carne, motivandolo con la teoria della metempsicosi e ad Empedocle risale la teoria dei quattro elementi enunciata nei vv. 237-258. Nei vv. 178-185 è rievocata la teoria di Eraclito del perenne scorrere di tutte le cose, mentre il tema cosmologico accennato ai vv. 194-195 è chiaramente di derivazione stoica. La formulazione platonica della teoria del destino delle anime (Fedro, 246 -249 ) sembra riecheggiare nei vv. 456-458. Evidentissimi e numerosi sono i richiami a Lucrezio (De rerum natura V, 419 e sgg., 1161 e sgg; VI, 58 e sgg.; 379 e sgg., 527 e sgg.); in particolare nel confronto dei vv.150 e sgg. con De rerum natura II, 7 e sgg. e V, 1194 si vede come lo stesso tema sia trattato in termini analoghi, ma in una prospettiva teorica diversa. In particolare emergono affinità tematiche e lessicali con De rer. nat. V, 827-835: Mutat enim mundi naturam totius aetas… (Il tempo trasforma la natura del mondo intero)
[7] si intende “esseri animati”, animal “animato” è l’essere dotato del soffio vitale, anima > a!nemov = vento.
[8] Atreo per vendetta aveva ucciso i figli del fratello Tieste e glieli aveva imbanditi come cibo in un banchetto. La vicenda fu oggetto di tragedie di Sofocle e di Euripide, perdute, di Ennio e di Accio, di cui restano solo frammenti, di una di Seneca, e infine di Ugo Foscolo
[9] Sozione di Alessandria fu un filosofo pitagorico del I sec., che visse a Romma e fece parte della scuola dei Sestii, seguaci del pitagorismo e dello stoicismo.
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13 maggio 2021